Quando il medico viola il segreto professionale

Il reato di rivelazione del segreto professionale postula, tra l’altro, la sussistenza di una “rivelazione” del  segreto e l’assenza di una giusta causa di tale rivelazione. Non può dunque configurare detto reato la comunicazione di un dato fatto (per esempio, l’infertilità del marito) a chi già ne era a conoscenza (nel caso di specie, la moglie).

Oggi vi segnalo un’interessante sentenza della Cassazione Penale (la n. 318 del 7 gennaio 2021) sul tema della violazione del segreto professionale da parte del medico.

Il caso

Un medico assiste, in qualità di ginecologo, una paziente; falliti numerosi tentativi di inseminazione omologa, la donna e il marito decidono di intraprendere un percorso di inseminazione eterologa, a seguito del quale la signora dà alla luce una bambina. In seguito, i coniugi si separano e l’ex marito incardina una causa per il disconoscimento della paternità della bambina, negando tra l’altro di essere ricorso al processo di inseminazione.

L’ex moglie non riesce ad entrare in possesso della documentazione concernente l’esecuzione dell’intervento di fecondazione eterologa né dalla clinica, né dal medico che l’aveva eseguita perché nelle more deceduto; in tale contesto, su richiesta della donna, il ginecologo in questione rilascia un certificato con cui attesta la severa infertilità dell’uomo – la cui informazione era stata data al medico dalla paziente – all’esclusivo fine di consentirne la produzione nel procedimento civile a tutela degli interessi superiori della figlia minore della coppia.

In tutta risposta, l’ex marito denuncia il medico per aver rivelato, senza giusta causa, circostanze riservate inerenti alla sua sfera sessuale e procreativa e, per lo stesso motivo, presenta contro stesso ginecologo un esposto presso l’Ordine dei Medici competente.

Il Tribunale condanna il medico in primo grado per violazione del segreto professionale e per diffamazione aggravata dall’attribuzione di un fatto determinato; la Corte d’Appello, in parziale riforma della sentenza di primo grado, proscioglie il medico dai reati di cui sopra perché estinti per prescrizione, confermando le statuizioni di responsabilità contenute nella sentenza di primo grado ai soli fini civili.

Vediamo qual è l’esito del ricorso in Cassazione.

Il segreto professionale del medico

I principi generali in tema di segreto professionale del medico sono stabiliti nell’art. 10 del Codice Deontologico medico, il quale impone a tutti i medici di mantenere il segreto su tutto ciò di cui vengono a conoscenza in ragione della loro attività professionale. L’eventuale violazione del segreto è considerata di maggiore gravità se da esso possa derivare o profitto per il medico o per terze persone o un nocumento per la persona assistita o per altri.

La centrale importanza di quest’obbligo è sottolineata anche dalla previsione che il medico non è dispensato dall’osservanza del segreto professionale né a seguito della morte della persona assistita, né in caso di sospensione o interdizione dall’esercizio professionale o di cancellazione dagli Albi del medico stesso.

Il professionista che rivela il segreto professionale rischia di incorrere tanto in responsabilità deontologica, quanto in responsabilità civile e penale.

Ricordiamo, sotto quest’ultimo profilo, che l’art. 622 c.p. punisce chiunque, avendo notizia, per ragione del proprio stato o ufficio, o della propria professione o arte, di un segreto, lo rivela, senza giusta causa, ovvero lo impiega a proprio o altrui profitto, se dal fatto può derivare nocumento, con pene che includono la multa ed arrivano fino alla reclusione di un anno.

Anche sotto il profilo deontologico, la rivelazione è ammessa esclusivamente se motivata da una giusta causa prevista dall’ordinamento o dall’adempimento di un obbligo di legge.

Quando ricorre il reato di rivelazione del segreto professionale?

Secondo la Suprema Corte, nella decisione oggi in commento,

Il reato di rivelazione del segreto professionale postula tra l’altro la sussistenza di “una rivelazione” del segreto e l’assenza di giusta causa.”

Ma in cosa può consistere la “giusta causa” della rivelazione?

Secondo la Cassazione, la nozione di “giusta causa” si riferisce ad un concetto generico di giustizia, che il giudice è tenuto a determinare di volta in volta con riguardo alla liceità – sotto il profilo etico e sociale – dei motivi che hanno portato il soggetto ad un certo atto o comportamento. Secondo quanto indicato dalla Corte Costituzionale, la “giusta causa” è una vera e propria “valvola di sicurezza del meccanismo repressivo”, che evita che la sanzione penale scatti allorché l’osservanza del precetto appaia concretamente “inesigibile” in ragione, a seconda dei casi, di situazioni ostative, di obblighi di segno contrario ovvero della necessità di tutelare interessi confliggenti, con rango pari o superiore rispetto a quello protetto dalla norma incriminatrice, in un ragionevole bilanciamento di valori.

Nel caso in commento, il ginecologo aveva dedotto – quale “giusta causa” della sua condotta – che l’emissione del certificato medico oggetto di contestazione era stata giustificata dalla necessità di sua produzione nella controversia civile concernente il disconoscimento della paternità della bambina, in un’ottica di tutela dei diritti costituzionali della stessa minore (ai sensi degli artt. 2, 30 e 31 Cost.), che dovevano ritenersi prevalenti rispetto al diritto al segreto del padre.

La Corte d’Appello, dal canto proprio, non aveva fornito alcuna valida motivazione per escludere, nel caso di specie, la “giusta causa” della rivelazione.

Per la violazione del segreto è necessaria la relativa rivelazione a qualcuno che non ne era già al corrente

Sotto il profilo della “rivelazione”, va considerato che l’ex marito aveva posto – a fondamento della sua domanda giudiziale di disconoscimento della paternità della figlia – la sua “severissima infertilità” ed aveva fatto riferimento al ricorso della moglie alla fecondazione artificiale eterologa.

Secondo la Cassazione, sembra arduo di poter addebitare al medico imputato di aver “rivelato” (con il certificato destinato ad essere prodotto nella stessa causa civile) “circostanze che avrebbero dovuto rimanere riservate inerenti alla sfera sessuale e procreativadell’ex marito, quando era stato quest’ultimo ad esercitare azione di disconoscimento della paternità ed a dedurre, a fondamento della sua domanda, quelle medesime circostanze.

Inoltre ed a maggior ragione, secondo la Suprema Corte,

non si ha rivelazione, e quindi violazione del segreto, nel caso di comunicazione della notizia a chi già la conosceva”.

Posto che il certificato in contestazione era stato rilasciato dal medico alla ex-moglie/sua paziente, la quale era ben a conoscenza dell’infertilità del marito, nessuna violazione del segreto professionale poteva ritenersi occorrente nel caso in commento.

Alla luce di quanto precede, la Corte ha annullato la sentenza impugnata in relazione ai suoi effetti civili, con rinvio per nuovo giudizio al giudice civile competente in grado di appello.

Ci aggiorniamo la prossima settimana con un nuovo, interessante argomento.

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LEGGI LA SENTENZA

Cass. Pen., Sez. V, n. 318 del 7 gennaio 2021