All’epoca dei fatti non esisteva, in astratto, cautela che potesse evitare l’accidentale puntura del chirurgo con un ago infetto nel corso di una operazione chirurgica: questo giudizio in fatto vale ad escludere una responsabilità dell’azienda ospedaliera per il successivo decesso dello stesso chirurgo a causa dell’infezione seguita alla puntura
Oggi vi segnalo un’ordinanza della Cassazione (Sez. VI, n. 1271 del 21 gennaio 2021) in tema di responsabilità dell’azienda sanitaria sui possibili esiti mortali per il chirurgo dell’attività dallo stesso svolta al suo interno.
Il caso
Un medico, nel corso di un intervento chirurgico, si punge accidentalmente con un ago di sutura, sul quale vi sono tracce di sangue infetto del paziente; a seguito all’incidente, il chirurgo contrae un’epatite che lo porterà al decesso.
La moglie ed i figli del chirurgo iniziano dunque una causa nei confronti dell’USL, della Gestione Liquidatoria, dell’Ospedale e della Regione di riferimento al fine di ottenere il risarcimento dei danni subiti sia in proprio sia iure hereditatis, basando la loro domanda sulla contestazione della mancata adozione da parte degli enti convenuti delle cautele necessarie ad evitare infezioni nel corso dell’attività chirurgica. Gli enti convenuti si difendono deducendo che, al tempo della contrazione dell’infezione (1987) il virus di quell’epatite non era noto e dunque non era possibile adottare specifiche cautele che evitassero ai medici o al personale sanitario di infettarsi.
Il Tribunale accoglie le domande della famiglia del medico, ritenendo che l’evento fosse stato la conseguenza del fatto che l’amministrazione ospedaliera non avesse adottato le cautele necessarie (cui era tenuta) ad evitare il danno; la Corte d’Appello riforma invece la decisione di primo grado e rigetta la domanda di risarcimento, ritenendo invece che la ex USL avesse, sulla base delle conoscenze dell’epoca, agito correttamente.
Vediamo qual è l’esito del giudizio in Cassazione.
Le ragioni della decisione della Corte d’Appello: l’attività medico-chirurgica è qualificabile come attività pericolosa?
La sentenza resa in grado d’appello – oggetto di critica da parte degli eredi – si incentra sulla qualificabilità (o meno) dell’attività medico-chirurgica come attività pericolosa ai fini dell’applicazione dell’art. 2050 c.c..
Detto articolo, lo ricordiamo, prevede che qualora una data attività sia qualificabile, appunto, come pericolosa, il relativo esercente viene gravato della responsabilità per qualsiasi danno che possa derivare dal suo svolgimento, salvo che provi “di aver adottato tutte le misure idonee ad evitare il danno” (sul tema, vedi anche il mio precedente post “Sostanze non dichiarate nel cosmetico contro la psoriasi? Condannato il produttore per svolgimento di attività pericolosa”).
Sennonché, secondo la Cassazione, l’impostazione data al problema è erronea.
Nel caso in commento, infatti, non era tanto in discussione l’individuazione di un’eventuale responsabilità a carico di chi aveva svolto l’attività medico-chirurgica (che, a ben vedere, era lo stesso medico danneggiato), ma piuttosto la valutazione di un’eventuale responsabilità a carico di chi aveva predisposto le condizioni per l’esercizio dell’attività medica, ovverosia delle amministrazioni convenute in giudizio.
Andava dunque valutato se la condotta delle amministrazioni in questione, a monte dell’incidente, potesse essere inquadrata come atto illecito (doloso o colposo) a danno del medico (ai sensi dell’art. 2043 c.c.) oppure come violazione delle misure richieste a tutelare l’integrità fisica dei prestatori di lavoro (ai sensi dell’art. 2087 c.c.) e se tale diversa qualificazione potesse portare a conclusioni differenti.
Le conclusioni nel caso in commento
Così riqualificato il problema, le conclusioni raggiunte dalla Corte d’Appello sono, secondo la Cassazione, nella sostanza corrette.
La Corte d’Appello ha ritenuto – con giudizio di fatto non censurato né censurabile dalle parti – che, anche considerato il periodo in cui il fatto si era verificato (1987), non v’erano cautele idonee ad evitarlo, di alcun genere, così che un giudizio effettuato alla luce dell’una o dell’altra norma non avrebbe condotto ad un diverso esito del giudizio.
Secondo la Cassazione,
“In pratica, l’accertamento della corte, che è anche condizionato dalle perizie medico-legali, è nel senso che non esiste in astratto una qualche cautela che possa evitare l’accidentale puntura con un ago infetto nel corso di una operazione chirurgica: questo giudizio in fatto, qui non discutibile, vale ad escludere una responsabilità dell’azienda ospedaliera anche se vista con il criterio di cui all’articolo 2043 c.c. o 2087 c.c.”.
Sulla base di quanto precede la Cassazione ha rigettato l’impugnazione degli eredi del medico, ritenendo fondamentalmente non doverosa una diversa condotta da parte delle amministrazioni in questione.
Ci aggiorniamo la prossima settimana con un nuovo, interessante argomento.
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