Al fine di escludere la responsabilità dell’esercente un’attività pericolosa, qual è senza dubbio quella di produzione di farmaci, è necessario valutare, da un lato, la rigorosa osservanza di tutte le sperimentazioni e protocolli previsti dalla legge prima della commercializzazione e, dall’altro lato, l’adeguatezza della segnalazione dell’effetto indesiderato al consumatore.
Questa settimana vi segnalo una recentissima sentenza della Cassazione Civile (n. 6587 del 7 marzo 2019) in tema di responsabilità dell’azienda farmaceutica nel caso di verificazione di effetti collaterali gravi e rari.
Il caso
Un signore riporta una ferita lacero-contusa ad una mano; il suo medico gli prescrive un antibiotico (il Neoduplamox).
A seguito dell’assunzione del farmaco, il paziente sviluppa la rara sindrome di Lyell, con gravi conseguenze (necrosi epidermica tossica), anche permanenti, sulla sua salute. Si tratta di un effetto collaterale noto, grave e rarissimo (1 caso su 1 milione), derivante dall’uso del farmaco in questione, regolarmente segnalato nel relativo foglio illustrativo.
Il paziente incardina una causa per ottenere il risarcimento dei gravi danni riportati contro il distributore del farmaco, che a sua volta chiamerà in causa l’azienda farmaceutica produttrice dello stesso; quest’ultima chiamerà poi in causa il medico prescrittore, e tutti le rispettive assicurazioni.
Il Tribunale rigetta la richiesta di risarcimento; la Corte d’appello sovverte la pronuncia di primo grado e condanna l’azienda farmaceutica al risarcimento del danno sofferto dal paziente.
Oggi esaminiamo l’esito del ricorso in Cassazione contro tale ultima sentenza.
L’attività di produzione e distribuzione di farmaci è attività intrinsecamente pericolosa
La Corte di Cassazione conferma innanzitutto l’applicabilità, al caso in commento, dell’art. 2050 del Codice Civile in materia di responsabilità per l’esercizio di attività pericolose, il quale addossa all’esercente di una determinata attività la responsabilità di qualsiasi danno che possa derivare dallo svolgimento della stessa, salvo che provi “di aver adottato tutte le misure idonee ad evitare il danno” stesso.
Stiamo dunque parlando di una responsabilità di natura oggettiva, che prescinde dalla colpevolezza della condotta dell’esercente e che può essere esclusa solo laddove quest’ultimo offra la cosiddetta “prova liberatoria”, consistente appunto nella prova di aver adottato tutte le misure precauzionali opportune e necessarie ad evitare il danno. Se, nonostante tali sforzi, l’evento dannoso si sia comunque verificato, sarà considerato inevitabile e sarà dunque escluso il rapporto causale con l’attività pericolosa.
Inapplicabile, ma solo considerato il caso concreto, la normativa sul prodotto difettoso
Secondo la Corte, l’applicabilità al caso concreto della disciplina dell’art. 2050 c.c. non esclude l’eventuale operatività della parallela normativa in materia di prodotti difettosi; si tratta infatti di
“normative aventi, in via di principio, una diversa ratio e una diversa sfera di operatività”.
Nel caso in commento, la consulenza tecnica d’ufficio ha, da un lato, pacificamente confermato l’esistenza di un rapporto di causalità tra l’uso del farmaco in questione e l’insorgenza della sindrome nel paziente ma, dall’altro lato, ha escluso la possibile difettosità del farmaco medesimo: l’insorgenza della sindrome di Lyell è infatti una complicanza nota della terapia, ma non prevedibile né prevenibile.
Non v’è nessuno spazio, dunque, per l’applicazione della normativa in materia di prodotto difettoso nel caso di specie.
La decisione della Corte d’Appello
Il nucleo della decisione ruota dunque intorno all’offerta della prova liberatoria (e cioè alla prova di aver adottato tutte le misure idonee ad evitare il danno) da parte dell’azienda farmaceutica nel caso di commento.
Secondo la Corte d’Appello, la prova liberatoria non sarebbe stata raggiunta, posto che la causa scatenante degli effetti collaterali nel caso concreto non era nota e che dunque, anche se il rischio di accadimento era riportato nel foglio illustrativo del farmaco, il paziente non avrebbe potuto concretamente valutare il rischio derivante dalla relativa assunzione. In tal caso, anche se il rischio di accadimento di danni importanti – ma di origine ignota – era di un caso su un milione,
“non è sufficiente la segnalazione di possibili pericoli connessi all’assunzione, dovendo l’impresa o rinunciare tout court alla produzione e alla commercializzazione del prodotto o accollarsi il rischio economico del risarcimento del danno“.
La prova liberatoria secondo la Cassazione
Secondo la Cassazione tale impostazione non è condivisibile in quanto
“non (è) in alcun modo postulabile che l’azienda farmaceutica debba, a fronte di un effetto indesiderato di cui non si conosca la matrice, optare tra l’assunzione dei rischi connessi agli effetti di una responsabilità di tipo sostanzialmente oggettivo, e la rinuncia alla produzione ed alla commercializzazione del prodotto”.
Al fine della valutazione della sussistenza della prova liberatoria, andranno dunque esaminate
- “da un lato, la rigorosa osservanza di tutte le sperimentazioni e i protocolli previsti dalla legge prima della produzione e commercializzazione del farmaco” (questione non controversa nella fattispecie, n.d.r.);
- “dall’altro, l’adeguatezza della segnalazione dell’effetto indesiderato.”
La mera indicazione di un possibile effetto collaterale non è sufficiente
Su quest’ultimo punto, la Cassazione precisa anche che non una qualunque informativa circa i possibili effetti collaterali del farmaco possa essere sufficiente per scriminare la responsabilità dell’esercente, essendo invece
“necessario che l’impresa farmaceutica svolga una costante opera di monitoraggio e di adeguamento delle informazioni commerciali e terapeutiche, allo stato di avanzamento della ricerca, al fine di eliminare o almeno ridurre il rischio di effetti collaterali dannosi e di rendere edotti nella maniera più completa ed esaustiva possibile i potenziali consumatori.”
Sulla base di quanto precede, la sentenza impugnata è stata cassata e la causa è stata rinviata ad altra sezione della stessa Corte d’Appello, che dovrà nuovamente pronunciarsi sul caso sulla base dei principi sopra visti.
Ci aggiorniamo la prossima settimana con un altro, interessante argomento!
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Cassazione Civile, Sez. III, n. 6587 del 7 marzo 2019