A volte ritornano (anche in Cassazione): la responsabilità dell’équipe per erronea somministrazione di farmaci

Al primario non è richiesto, in spregio alle aggiornate modulazioni dei doveri di controllo delle organizzazioni complesse, di controllare ogni cosa in reparto; il primario è però tenuto a supervisionare e garantire il coordinamento, il controllo e la guida dell’organizzazione del reparto, l’affidabilità dei suoi diretti collaboratori e a tenere sotto controllo i suoi pazienti e la loro documentazione clinica.

Oggi vi segnalo la seconda pronuncia della Cassazione Penale (n. 38354 del 12.10.2022) concernente un caso di erronea somministrazione di farmaci risultata letale per la paziente.

Trovate qui il mio commento alla prima sentenza resa dalla Suprema Corte sullo stesso caso (Cassazione Penale, Sez. IV, n. 20270 del 13.5.2019), che si concentrava in particolare sulla posizione dell’infermiera.

Il caso

Ripercorriamo brevemente i fatti oggetto di causa.

Una paziente, affetta da linfoma di Hodgin, all’inizio del secondo ciclo di chemioterapia, viene infusa per errore con un quantitativo di farmaco 10 volte superiore al dovuto.
La somministrazione è conseguenza dell’errata annotazione nella diaria della cartella clinica del dosaggio della terapia del primo ciclo chemioterapico – mg. 90 anziché mg. 9 -, errore che condurrà la paziente al decesso.

Sono coinvolti, in varia misura, tutti i componenti dell’équipe:

  • il medico specializzando in oncologia, che aveva provveduto all’annotazione e che, per coprire il proprio errore, non aveva esitato a falsificare la cartella clinica – reato per il quale viene poi separatamente perseguito e condannato – e ad addebitare l’errore ad un ignaro studente di medicina 
  • il medico oncologo, che aveva convalidato la prescrizione
  • il primario, che non aveva supervisionato l’andamento del reparto
  • l’infermiera professionale incaricata di preparare il farmaco la quale, però, aveva rilevato l’anomalia del quantitativo di farmaco richiesto e delle modalità della relativa infusione e aveva provveduto a chiedere per due volte chiarimenti al reparto richiedente.

Il Tribunale e la Corte d’Appello condannano per omicidio colposo i medici e gli infermieri coinvolti nella vicenda, e la valutazione passa dunque alla Cassazione.

L’esito del primo ricorso in Cassazione sulla posizione dell’infermiera…

La prima sentenza della Cassazione (Cassazione Penale, Sez. IV, n. 20270 del 13.5.2019) annulla la condanna a carico dell’infermiera, giudicando prudente e corretta la condotta tenuta da quest’ultima sotto il profilo del dovuto confronto col medico, nei limiti del rispetto dei rispettivi ruoli e senza indebito sindacato delle scelte mediche.

La Corte ritiene però che vada verificata l’esistenza (o meno) di norme procedurali (quali linee guida, buone prassi, protocolli, raccomandazioni e normative interne o consuetudinarie) statuenti un eventuale obbligo dell’infermiera di interloquire solo con medici cd. strutturati per lo scioglimento dei dubbi relativi al dosaggio dei farmaci ed al loro allestimento. Nel caso di specie, l’infermiera aveva infatti fatto riferimento non ad un medico “strutturato” – ovverosia rivestito della qualifica di lavoratore dipendente del reparto – ma ad un professionista che frequentava il reparto semplicemente come volontario, senza un incarico formale, per quanto dotato di autonomia d’intervento e, in linea di fatto, braccio destro del primario, condotta ritenuta biasimevole da parte della Corte d’Appello e che aveva condotto alla sua condanna.

…e la soluzione adottata dalla seconda sentenza di Cassazione

Secondo la sentenza oggi in commento, anche alla luce della nuova revisione dei fatti del processo effettuata dalla Corte d’Appello, non esisteva alcuna linea guida, buona prassi, né normativa interna all’azienda sanitaria o al reparto oggetto d’esame che imponesse agli infermieri, come specifica regola cautelare, di riferirsi esclusivamente a medici con qualifica formale di “strutturati” per lo scioglimento di eventuali dubbi in merito alla somministrazione dei farmaci, con esclusione degli altri medici operanti nei reparti.

Anche le “Raccomandazioni ” del Ministero della Salute n. 7 del marzo 2008 (“Raccomandazione per la prevenzione della morte, coma o grave danno derivati da errori in terapia farmacologica”) non contengono un’indicazione univoca della qualifica formale del medico al quale il personale infermieristico deve rivolgersi nei casi indicati ma, secondo la Suprema Corte, le stesse “Raccomandazioni” devono essere interpretate alla luce del contesto operativo e della specifica posizione occupata dall’operatore al momento del fatto.

In base a tale analisi, è risultato che l’infermiera:

  • si era tempestivamente attivata per avere una espressa conferma della terapia non una, ma due volte, e
  • la stessa aveva ottenuto il nulla osta ad agire da parte di un medico che, pur non strutturato, era un punto di riferimento all’interno del reparto e considerato il “braccio destro” del primario.

È stata dunque correttamente esclusa la rimproverabilità della condotta dell’infermiera e dunque la sua responsabilità.

Sulla responsabilità del medico specializzando

In relazione alla responsabilità del medico specializzando, per quanto a titolo di precisazione di principio (tenuto conto che la condanna nei confronti del medico era ormai divenuta irrevocabile), la Suprema Corte ha confermato il suo orientamento consolidato, secondo cui

il medico specializzando è titolare di una posizione di garanzia in relazione alle attività personalmente compiute nell’osservanza delle direttive e sotto il controllo del medico tutore, che deve verificarne i risultati, fermo restando che la sua responsabilità dovrà in concreto essere valutata in rapporto anche allo stadio nel quale al momento del fatto si trovava l’iter formativo.”

In particolare,

il medico specializzando deve rifiutare i compiti che non ritiene in grado di compiere, poiché in caso contrario se ne assume la responsabilità a titolo di cosiddetta colpa per assunzione”.

Per un approfondimento sul tema, si veda anche il mio precedente postI confini della responsabilità del medico specializzando”.

La posizione del primario e la sua responsabilità per carente organizzazione del reparto

La Cassazione si concentra, infine, sulla responsabilità del primario, affermata nel caso in commento a titolo di cooperazione nel delitto colposo ai sensi dell’art. 113 cod. pen..

Secondo la Cassazione, la sequela di errori che aveva condotto alla morte della paziente non era dovuta ad eventi imprevedibili ed eccezionali, ma era invece figlia dell’approssimativa gestione interna nonché, e soprattutto, della ben scarsa conoscenza tecnica dei medici che vi operavano.

Il punto di partenza è allora proprio la considerazione delle mancanze organizzative del reparto ospedaliero, nonché della totale assenza di coordinamento, di controllo e di guida dei singoli sanitari da parte del primario (situazione che porterà, a seguito di un’ispezione ministeriale, alla chiusura del reparto); tali mancanze vengono imputate pienamente al primario, il quale

sarebbe stato tenuto ad un controllo severo del decorso della paziente, sapendo che la stessa era ospitata in un reparto non particolarmente attrezzato e in fatto affidata a giovani sanitari del tutto inesperti – la cui insufficiente preparazione specifica avrebbe invece dovuto essere ben conosciuta e vagliata dal loro docente – nel trattamento della patologia della signora (ma nonostante ciò autorizzati in qualche modo a “mettere mano” alle cartelle cliniche e a rassicurare il personale infermieristico su dosaggi e posologie). Laddove il (…) non aveva neppure adeguatamente verificato la tenuta della cartella clinica della signora, dove “l’insana annotazione erronea di 90 mg giaceva scritta da settimane“.

Al primario

non si chiedeva… di controllare ogni cosa di quel reparto, in ispregio delle più aggiornate modulazioni dei doveri di controllo delle così dette organizzazioni complesse… ma solo di controllare la sua paziente, l’operato e la affidabilità dei suoi diretti collaboratori, la somministrazione di una flebo, e l’esame cadenzato di una cartella clinica. Nulla di eclatante o di particolarmente articolato e/o inesigibile“.

Per concludere

Alla luce di quanto precede, la Suprema Corte ha:

  • confermato l’assoluzione per l’infermiera
  • dichiarato inammissibili i ricorsi dello specializzando e del primario, confermandone la condanna
  • annullato senza rinvio la decisione concernente il medico oncologo, ma solo con riferimento all’applicazione della pena accessoria dell’interdizione dalla professione medica, confermando per il resto la condanna già inflitta.

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LEGGI LA SENTENZA

Cassazione Penale, Sez. III, n. 38354 del 12.10.2022