In tema di responsabilità civile (sia essa legata alle conseguenze dell’inadempimento di obbligazioni o di un fatto illecito aquiliano), la verifica del nesso causale tra la condotta omissiva e il fatto dannoso si sostanzia nell’accertamento della probabilità (positiva o negativa) del conseguimento del risultato idoneo ad evitare il rischio specifico di danno, riconosciuta alla condotta omessa, da compiersi mediante un giudizio contro fattuale, che pone al posto dell’omissione il comportamento dovuto. Tale giudizio deve essere effettuato sulla scorta del criterio del “più probabile che non”
Oggi vi segnalo un’interessante sentenza della Cassazione Civile (n. 8114 del 14 marzo 2022) concernente il tema del nesso causale in sede civilistica.
Il caso
A seguito di un incidente stradale, un paziente si reca in Pronto Soccorso, ma il radiologo non si avvede di una frattura delle ossa del bacino ed i colleghi del Pronto Soccorso lo dimettono. Il paziente decederà qualche tempo dopo a causa di una trombosi polmonare, conseguente alla stasi prolungata impostagli dalla frattura non diagnosticata.
Viene quindi incardinato dagli eredi prima un procedimento penale e poi un procedimento civile, quest’ultimo contro sia i medici sia l’Azienda Ospedaliera, per chiedere il risarcimento dei danni conseguente alla colpevole trascuratezza dell’approfondimento diagnostico delle condizioni del paziente ed alla mancata somministrazione di eparina, indispensabile al fine di impedirne il decesso.
La Corte d’Appello rigetta le doglianze degli eredi, giudicando la condotta dei medici coinvolti nel caso totalmente esente da colpa.
Vediamo qual è l’esito del ricorso in Cassazione degli eredi.
Il medico radiologo ha sbagliato… o forse no?
Gli eredi del paziente contestano innanzitutto l’errore in cui sarebbe incorsa la Corte d’Appello:
- nell’escludere la responsabilità colposa del medico radiologo nella lettura (errata) delle radiografie eseguite in Pronto Soccorso, e
- per aver ritenuto mancante il nesso causale tra tale errore ed il decesso del paziente.
Anche secondo la Cassazione, però, la condotta del medico non è passibile di rimprovero. È stato infatti accertato nei precedenti gradi del giudizio che:
- l’esame radiologico eseguito dopo il sinistro stradale era stato esteso, con campo allargato, anche al bacino
- la frattura della branca ileo-pubica subita dal paziente non era visibile all’esame, in quanto non vi era allontanamento (diastasi) dei margini ossei
- la possibilità di accertare radiologicamente la frattura del bacino era emersa solamente a seguito della radiografia eseguita diversi giorni dopo presso l’abitazione del paziente, con le proiezioni oblique che evidenziavano il margine inferiore della frattura posto che, solo a distanza di tempo, si erano avviati i processi riparativi con la formazione del callo osseo.
Pertanto, la diagnosi del radiologo (negativa in relazione alla frattura) doveva ritenersi, per l’epoca in cui fu fornita e la documentazione allora disponibile, correttamente formulata e “rientrante nella media preparazione dello specialista“.
Sulla responsabilità dei medici del Pronto Soccorso
Diversa è la valutazione della Suprema Corte in merito alla responsabilità colposa della struttura ospedaliera convenuta e degli altri sanitari coinvolti nella vicenda, in relazione alla mancata somministrazione dell’eparina.
In breve, al di là della circostanza concernente l’obiettiva diagnosticabilità della frattura ossea del bacino, la valutazione clinica dei sanitari (diversi dal radiologo) che ebbero immediatamente a disposizione gli elementi costitutivi del quadro clinico del paziente all’atto della relativa presentazione presso il Pronto Soccorso, avrebbe dovuto ritenere verosimile – in considerazione della rilevantissima sintomatologia dolorosa riportata dal paziente – una persistente condizione di stasi del paziente per un tempo ragionevolmente significativo.
Ciò posto, secondo la Cassazione
“essendo chiaro come l’immobilizzazione di un paziente costituisca un importante fattore di rischio per trombosi venosa profonda, e ciò a prescindere da un trauma, essendo tutti i pazienti allettati soggetti a un concreto rischio di trombosi”,
nel caso di specie, la prevedibilità della prolungata immobilità del paziente a seguito del trauma subito e della possibile conseguente formazione di una trombo-embolia polmonare, avrebbe necessariamente dovuto indurre i sanitari del Pronto Soccorso, “indipendentemente dall’esistenza della frattura del bacino e della sua mancata evidenziazione”, a provvedere alla somministrazione dell’eparina.
Sul punto, il giudice d’appello, dopo aver (correttamente) riconosciuto come un’eventuale terapia eparinica avrebbe probabilmente evitato – almeno, statisticamente, nel 68/70% dei casi – la formazione del trombo e il conseguente decesso del paziente, ha errato ad escludere l’esistenza del nesso causale tra la mancata prescrizione della terapia eparinica ed il decesso, sul presupposto dell’assenza di una “prova certa oltre ogni ragionevole dubbio” di tale correlazione.
Infatti, secondo giurisprudenza consolidata in tema di responsabilità civile, tale “prova certa” non è necessaria.
“La verifica del nesso causale tra la condotta omissiva e il fatto dannoso si sostanzia nell’accertamento della probabilità (positiva o negativa) del conseguimento del risultato idoneo ad evitare il rischio specifico di danno, riconosciuta alla condotta omessa, da compiersi mediante un giudizio controfattuale, che pone al posto dell’omissione il comportamento dovuto. Tale giudizio deve essere effettuato sulla scorta del criterio del “più probabile che non”, conformandosi a uno standard di certezza probabilistica, che, in materia civile, non può essere ancorato alla determinazione quantitativa-statistica delle frequenze di classi di eventi (c.d. probabilità quantitativa o pascaliana), la quale potrebbe anche mancare o essere inconferente, ma va verificato riconducendone il grado di fondatezza all’ambito degli elementi di conferma (e, nel contempo, di esclusione di altri possibili alternativi) disponibili nel caso concreto (c.d. probabilità logica o baconiana)”.
Nel caso concreto, il giudice d’appello – anziché esigere una “prova certa” che la somministrazione dell’eparina avrebbe salvato la vita al paziente – avrebbe viceversa dovuto orientare il giudizio nella prospettiva della maggior probabilità (in termini logici o ‘baconiani’) del successo terapeutico della somministrazione di eparina rispetto all’esito contrario.
L’avvenuto riconoscimento dell’idoneità della terapia eparinica a proteggere il paziente traumatizzato da una trombosi venosa profonda nel 68/70% dei casi avrebbe consentito di avviare a un giudizio affermativo circa la positiva sussistenza del nesso di causalità, una volta escluso il decorso o l’incidenza di serie causali alternative.
Fatto ciò, la corte territoriale avrebbe poi dovuto approfondire in modo scrupoloso gli elementi di prova utili ai fini della ricostruzione dei profili di esigibilità (e dunque di rimproverabilità) dell’eventuale condotta terapeutica corretta dei medici interessati, al fine di attestarne (o di negarne) la concreta responsabilità colposa (ai fini civilistici) in relazione al decesso del paziente.
Per concludere
Sulla base di quanto precede, la Suprema Corte ha cassato la sentenza e ha rinviato il giudizio alla Corte d’appello di provenienza, in diversa composizione, per una rivalutazione del caso sulla base dei principi visti sopra.
Ci aggiorniamo la prossima settimana con un nuovo, interessante argomento!
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