Il contenzioso in medicina: da cosa origina?

Continuiamo questa settimana il nostro viaggio nel contenzioso in medicina per concentrarci sui motivi da cui origina il contenzioso e sui suggerimenti per la relativa prevenzione e gestione.

Da cosa origina il contenzioso tra medico e paziente?

Anche la migliore gestione clinica non può impedire che emergano, talvolta, momenti di tensione tra medico e paziente.

In modo abbastanza ovvio, il contenzioso ha spesso origine da un errore tecnico del medico, in conseguenza del quale il paziente abbia riportato un danno obbiettivamente apprezzabile – abbia cioè accusato l’insorgenza di una nuova malattia, o il peggioramento di una malattia già sofferta – frequentemente enfatizzato come tale da colleghi senza troppi riguardi.

Frequentemente, tuttavia, il danno è solo valutato come tale, soggettivamente, dal paziente, il quale ritiene di aver subito – per un motivo o per un altro – un torto dal suo curante.

Buona parte dei casi giudiziari è dovuta non ad un errore nel trattamento, ma ad un’incongrua gestione del rapporto da parte del sanitario

In alcuni casi il paziente lamenta che il medico l’ha trascurato, in altri che non l’ha ascoltato; talvolta si convince da sé che il medico abbia commesso un errore, oppure che gli sia stato in qualche modo imposto un trattamento o una terapia non prevista, né voluta. Complice di quanto precede è anche la pletora di informazioni, spesso imprecise e superficiali, disponibili sul web, ed i numerosi forum in cui interlocutori senza alcuna preparazione medica sentenziano senza mezzi termini in merito alla correttezza o meno delle prestazioni mediche ricevute.

Sono molti e vari i motivi di crisi della relazione terapeutica tra medico e paziente ma, in tanti casi, la miccia del contenzioso va ricercata negli errori di approccio e di comportamento umano del sanitario.

Un’adeguata comunicazione tra medico e paziente può influire in maniera determinante sull’insorgenza del rischio di contenzioso.

L’informativa al paziente: la Cenerentola dei doveri sanitari

Il dovere terapeutico assunto dal medico nei confronti del paziente si riflette sul suo dovere accessorio di comunicare alla persona assistita tutte le informazioni necessarie in vista dell’ottenimento del suo consapevole consenso al trattamento sanitario.

Tale dovere informativo del medico dovrebbe coprire:

  • la natura, portata ed estensione del trattamento sanitario e/o dell’intervento chirurgico
  • le modalità d’esecuzione e le prevedibili conseguenze – rischi e benefici conseguibili – del trattamento prospettato, incluso il fatto che il trattamento potrebbe non portare a benefici concreti al paziente
  • le inevitabili difficoltà, la possibilità di complicazioni e di esiti negativi, inclusi il possibile aggravamento delle condizioni di salute del paziente, l’impatto che può avere sui vari aspetti della vita (lavorativo, sociale etc.) del paziente e l’impegno, in termini di sofferenze, dell’eventuale percorso riabilitativo 
  • le alternative terapeutiche eventualmente esistenti
  • i possibili esiti del non trattamento
  • gli eventuali limiti di adeguatezza della struttura sanitaria rispetto al trattamento prospettato (sia in termini organizzativi, sia in termini di specialità dei sanitari operanti).

Il condizionale è d’obbligo perchè sappiamo che, in realtà, un’informazione del calibro e contenuto sopra visto è usualmente riservata ad atti medici specialissimi ed è appannaggio solo di pochi professionisti medici che, come giustamente mi faceva presente un mio contatto medico solo pochi giorni fa, compensano la (usuale) mancanza di training professionale alla comunicazione con la loro personale inclinazione, che viene coltivata nel rapporto quotidiano con i loro pazienti.

Ma, al di fuori di questi encomiabili casi, la comunicazione col paziente resta frequentemente la Cenerentola dei doveri medici, relegata alla frettolosa somministrazione di poche, spesso criptiche informazioni tecniche che lasciano il paziente con grandi punti di domanda.

Queste le conclusioni di una ricerca svolta da un gruppo di ricercatori dell’Università di Brescia:

“La maggior parte dei pazienti vuole conoscere, in fase di consenso informato, le maggiori complicanze dell’intervento, come cambia la qualità della vita, cosa comporta il non sottoporsi alla procedura, la gestione del decorso post-operatorio e gli effetti a lungo termine dell’intervento. Un numero significativo di pazienti vuole conoscere le opzioni alternative sugli effetti a breve termine per quanto riguarda il tempo libero o le relazioni personali, sugli effetti a lungo termine nel lavoro. Pochi pazienti invece vogliono apprendere i dettagli della procedura chirurgica, le complicanze minori e le tecniche di anestesia/analgesia/sedazione. Non si è trovata differenza significativa nei sessi, nell’età e nella professione dei pazienti che hanno risposto al sondaggio, mentre c’è differenza significativa rispetto all’educazione ricevuta.”

(Tosi C., Dalessandri D., Laffranchi L., Contini E., Bindi M., Delbon P., Conti A., Paganelli C. – Dipartimento di Specialità Medico-Chirurgiche, Scienze Radiologiche e Sanità Pubblica, Università degli Studi di Brescia, “IL CONSENSO INFORMATO IN CHIRURGIA ORTOGNATICA PRECOCE”).

Per quanto si tratti di uno studio concernente specificamente la chirurgia ortognatica, è mia opinione che le esigenze informative e curiosità del paziente non cambino significativamente in altre branche della medicina o con riferimento ad altri trattamenti medici o chirurgici, salvo forse in relazione ai trattamenti con finalità estetiche, sui quali torneremo nelle prossime settimane.

Anche il modo vuole la sua parte

Talvolta, è anche il modus che difetta: sappiamo che comunicare col paziente non significa riversagli addosso un inesorabile elenco di rischi, complicanze e controindicazioni, che non avrebbe altro risultato che quello di spaventare l’inerme paziente.

Comunicare col paziente significa saper scegliere le informazioni essenziali ed importanti anche in relazione alle peculiarità del suo caso concreto, adeguando il momento comunicativo alla capacità di comprensione della persona assistita e tenendo conto della sua sensibilità e della reattività emotiva individuale, come richiesto anche dall’art. 33 del Codice Deontologico Medico.

Il paziente che non si sente compreso dal suo curante tenderà ad attaccarlo, se riterrà in qualche modo di aver subito un torto: quante volte i pazienti, raccontandomi la loro esperienza, lamentano che, se adeguatamente informati su cosa avrebbero dovuto aspettarsi, non si sarebbero sottoposti ad un dato trattamento. Si veda, sul punto, anche il mio precedente post “Intervento dermatologici con finalità terapeutica e danni da omessa informazione al paziente“.

L’errore clinico può essere perdonato, ma una mancanza di considerazione e di umanità no.

Per concludere

Concludiamo con le parole del sopra indicato studio bresciano:

“Molto spesso il consenso informato viene presentato all’ultimo momento e mal spiegato, relegando la sua funzione a mera formalità, quando non viene addirittura sottoposto dal personale infermieristico senza una parola da parte del medico e chirurgo… In questo senso sarebbe dovere del (medico) ascoltare, rendere partecipe il paziente della programmazione del trattamento, verificare attentamente che il paziente abbia compreso l’importanza della (malattia) sulla qualità della vita, includendo in questa osservazione (…) l’aspetto estetico, l’accettazione sociale, il benessere psicologico ed emotivo. Se si accetta le premesse bioetiche e medico-legali, comprende che gli obiettivi del trattamento (…) devono essere definiti insieme dal medico e dal paziente, e che devono essere considerate con il paziente attentamente tutte le alternative. Solo dopo questa verifica dell’apprendimento dell’intero problema, la procedura del consenso informato si potrebbe definire completata con successo; oltre al vantaggio bioetico, sarebbe di grande beneficio anche dal punto di vista della gestione del rischio. Infatti è dimostrato che il successo di un trattamento non può essere definito soltanto sulla base del risultato oggettivo clinico, ma anche e soprattutto nel contesto della percezione da parte del paziente.”

Ci aggiorniamo presto con nuovi consigli pratici!

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A presto!

Avv. Elena Bassan