Infezione nosocomiale da staphylococcus aureus ed obblighi della struttura sanitaria

Grava sulla struttura sanitaria, che accetta un paziente per l’esecuzione di un intervento chirurgico, la responsabilità contrattuale per l’adempimento di una serie di obbligazioni, inclusa pacificamente l’obbligazione di garantire l’assoluta sterilità non soltanto dell’attrezzatura chirurgica ma anche dell’intero ambiente operatorio nel quale l’intervento avrà luogo.

In quest’ottica, la struttura sanitaria risponde anche dell’opera dei terzi della cui collaborazione si avvale, dato che la sterilizzazione della sala operatoria e dei ferri chirurgici è compito che non spetta direttamente al chirurgo operatore.

 

Torno oggi sul tema sempre attuale delle infezioni nosocomiali per segnalarvi un’interessante ordinanza della Cassazione (n. 17696 del 25 agosto 2020) in tema di responsabilità della struttura ospedaliera in relazione al decesso di una paziente per un’infezione nosocomiale da stafilococco aureo.

Il caso

A seguito di una caduta accidentale, una paziente viene ricoverata in una struttura ospedaliera per un intervento di riduzione e sintesi di una frattura della rotula.

Dopo qualche giorno la paziente viene dimessa, solo per venire nuovamente ricoverata a distanza di pochi giorni, a seguito della scoperta di un’infezione batterica da stafilococco aureo contratta nel corso del precedente intervento.

La terapia antibiotica intrapresa viene ben presto sospesa a causa di una grave allergia cutanea manifestata dalla paziente e, nonostante le condizioni generali non favorevoli, la stessa viene dimessa senza ulteriori terapie; a fronte del peggioramento della situazione, segue un nuovo ricovero ed un nuovo intervento per revisione del focolaio della frattura, che non avrà però esito positivo: il giorno successivo all’intervento la paziente decede.

Gli eredi iniziano dunque una causa contro l’Azienda Ospedaliera, chiedendo la condanna di quest’ultima al risarcimento dei danni per aver causato l’infezione in occasione del primo intervento chirurgico e per non averla poi gestita in modo adeguato nel periodo successivo, causando così il decesso della paziente.

Sia il Tribunale che la Corte d’Appello rigettano le domande degli eredi, entrambi ritenendo che la gestione dell’infezione da parte dell’Azienda Sanitaria fosse avvenuta in modo, tutto sommato, corretto.

Vediamo qual è l’esito del ricorso in Cassazione.

Di nuovo sull’onere della prova in materia di infezioni nosocomiali…

La prima considerazione da cui parte la Suprema Corte nel caso in commento concerne il fatto che, sulla base degli accertamenti fatti nelle fasi di merito, il decesso della paziente fu materialmente dovuto – come causa finale – ad uno shock settico.

Tale evento fu però il punto di arrivo di una vicenda complessa, che non avrebbe avuto inizio se non ci fosse stata l’infezione da stafilococco aureo, inclusa espressamente dalla stessa consulenza tecnica d’ufficio tra le concause della morte della paziente: in mancanza dell’infezione originaria, secondo la consulenza d’ufficio, la sopravvivenza della paziente agli esiti della caduta accidentale sarebbe stata più probabile che non”.

La seconda considerazione riguarda il tipo di infezione sofferto dalla paziente, ovverosia

  • la constatazione della frequente (ancorché non esclusiva) origine nosocomiale dello stafilococco aureo
  • la particolare resistenza di questo batterio agli antibiotici, ivi compresi quelli affini alla penicillina.

Ciò avrebbe dovuto comportare la necessità di una particolare attenzione, da parte della struttura sanitaria, alla sterilità di tutto l’ambiente operatorio, proprio perché

“l’insorgenza di un’infezione del genere non può considerarsi un fatto né eccezionale né difficilmente prevedibile. E l’onere della prova di avere approntato in concreto tutto quanto necessario per la perfetta igiene della sala operatoria è, ovviamente, a carico della struttura.”

La struttura sanitaria deve garantire la sterilità non solo dei ferri chirurgici, ma dell’intera sala operatoria

Sulla base di questa premesse la Cassazione rileva che, a seguito del ricovero della paziente, gravavano sulla struttura sanitaria una serie di obbligazioni di natura contrattuale e tra queste,

“pacificamente… anche l’obbligazione di garantire l’assoluta sterilità non soltanto dell’attrezzatura chirurgica ma anche dell’intero ambiente operatorio nel quale l’intervento ha luogo; tanto che questa Corte ha affermato, proprio in un caso di infezione batterica contratta in ambiente operatorio, che il debitore (cioè la struttura sanitaria) risponde anche dell’opera dei terzi della cui collaborazione si avvale, ai sensi dell’art. 1228 cod. civ., dato che la sterilizzazione della sala operatoria e dei ferri chirurgici è compito che non spetta direttamente al chirurgo operatore”.

La responsabilità della struttura sanitaria per il fatto degli ausiliari di cui si avvale si estende dunque alla condotta di tutti gli operatori chiamati a dare il proprio contributo all’operatività della struttura stessa.

La decisione nel caso concreto

Nel caso in commento, non essendo stata neppure prospettata la possibilità che l’infezione da stafilococco aureo potesse aver avuto una genesi diversa da quella nosocomiale, secondo la Cassazione, deve darsi per accertata, anche se in via presuntiva, la dimostrazione da parte dei danneggiati che il contagio sia avvenuto in ospedale e, con ogni probabilità, in occasione del primo intervento chirurgico.

Alla luce di queste premesse non assume pertanto rilevanza dirimente, per la Corte, il problema della correttezza o meno del momento di somministrazione della profilassi antibiotica alla paziente in funzione dell’intervento, che costituiva il principale motivo di scontro tra le parti.

Ciò che rileva è invece che, almeno a livello indiziario, qualcosa non fosse andato a dovere in sala operatoria e, in definitiva, che l’Azienda ospedaliera non avesse dimostrato – anche a causa della negligente tenuta della cartella e della documentazione clinica pertinente al caso – la regolarità dell’operato dei suoi ausiliari anche in relazione alle operazioni di sterilizzazione dell’ambiente operatorio.

“Alla luce della giurisprudenza suindicata, infatti, una volta dimostrata, da parte del danneggiato, la sussistenza del nesso di causalità tra l’insorgere (in questo caso) della malattia ed il ricovero, era onere della struttura sanitaria provare l’inesistenza di quel nesso (ad esempio, dimostrando l’assoluta correttezza dell’attività di sterilizzazione) ovvero l’esistenza di un fattore esterno che rendeva impossibile quell’adempimento ai sensi dell’art. 1218 del codice civile.”

 

Per concludere

Sulla base di quanto precede la Cassazione ha esercitato, in questo caso, la sua facoltà di accogliere il ricorso per una ragione di diritto diversa da quella prospettata dal ricorrente, ancorché fondata sui fatti prospettati dalle parti e senza distorsione delle domande avanzate nel corso delle fasi di merito.

Il ricorso dell’erede della paziente è stato dunque accolto e la causa rinviata ad altra sezione della Corte d’Appello d’origine per una nuova decisione sui fatti di causa, da rivedere alla luce dei principi di diritto sopra enunciati.

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LEGGI L’ORDINANZA

Cassazione Civile, Sez. III, n. 17696 del 25 agosto 2020