Responsabilità dello specialista: quando l’azione del singolo si valuta nel contesto dell’équipe (e quando no)?

I principi in tema di responsabilità per attività sanitaria in équipe trovano applicazione nelle ipotesi in cui più soggetti, medici e/o paramedici, svolgono attività di cura del paziente in maniera coordinata, congiunta, nello stesso contesto spazio-temporale, ovvero in maniera disgiunta, in contesti temporali diversi, ma che realizzano un fenomeno di successione nel tempo nella posizione di garanzia; tali principi non operano nel caso di interventi distinti e svincolati, in relazione ai quali non possono dunque avere alcun rilievo, ai fini della valutazione della condotta dei medici successivi, le diagnosi formulate dai medici intervenuti prima.

Oggi torniamo sul tema della responsabilità per lavoro d’équipe esaminando una recentissima sentenza della Cassazione Penale (n. 36044 del 26 settembre 2022) concernente l’operato di due medici pediatri.

Il caso

A seguito di alcuni interventi ortopedici, un bimbo disabile di dieci anni inizia a soffrire di serie difficoltà respiratore e viene portato dai genitori in ospedale per tre volte, a distanza di alcuni giorni l’una dall’altra. La diagnosi è sempre di bronchite ma, col passare dei giorni, la situazione peggiora fino a precipitare dopo l’ultima visita: il bimbo decede per arresto cardiocircolatorio.

In sede di autopsia, la causa della morte viene individuata nell’occlusione completa della trachea favorita dalla concomitanza della stenosi tracheale post-intubazione – riferita ad un intervento chirurgico eseguito il mese precedente – e l’accumulo di secrezioni mucipare dovute alla diffusa e severa bronchite cronica catarrale sofferta dal bambino.

Sia il pediatra del Pronto Soccorso che il pediatra di reparto vengono indagati e condannati per aver causato – con condotte tra loro indipendenti – il decesso del piccolo.

In particolare, viene loro rimproverato:

  • di non aver adeguatamente valorizzato la mancata risposta medica del bimbo alla terapia somministratagli per molti giorni ed i sintomi lamentati dallo stesso (il peggioramento delle condizioni respiratorie, il tipo di dispnea, la progressiva comparsa di intensa astenia e disfonia) e, conseguentemente
  • di aver omesso di disporre il ricovero del bambino al fine di sottoporlo ad ulteriori accertamenti, che avrebbero consentito di accertare la vera causa delle difficoltà di respirazione (ovvero la stenosi tracheale) e di intervenire tempestivamente per rimuoverla.

Le difese dei medici

I medici si difendono deducendo, tra l’altro, che i genitori non avevano loro riferito alcuni sintomi essenziali (quali stanchezza, sudorazione e arrossamenti); che non c’erano elementi documentali che evidenziassero una storia di intubazione difficoltosa e prolungata e che non erano stati rilevati né cambiamenti della voce, né stridori respiratori, necessari per condurre ad una corretta diagnosi. Non era pertanto configurabile alcun errore diagnostico per parte loro.

D’altra parte, altri medici ospedalieri avevano già valutato il piccolo paziente nei giorni immeditatamente precedenti all’ultima visita erano giunti alla diagnosi di bronchite, e non c’era motivo, in base alla situazione concreta, per non fare legittimo affidamento sul loro corretto operato e giudizio.

Anche la mancanza di accertamenti dovuti può costituire errore diagnostico

Sul primo punto, secondo la Cassazione, il giudizio della Corte di Appello è da considerarsi corretto. Quest’ultima ha infatti giudicato che i medici specialisti – nella loro rispettiva qualità di pediatri rispettivamente presso il presidio di guardia medica e presso il reparto pediatrico dell’ospedale – avendo preso in carico il bambino e avendolo visitato, avrebbero dovuto:

  • rilevare i “sintomi evidenti (ed anche piuttosto univoci)” delle difficoltà sofferte dal bimbo (respiro rumoroso, progressiva difficoltà respiratoria, tipica tonalità della voce), molto diversi da quelli della tracheite
  • formulare (pur senza essere a conoscenza delle pregresse intubazioni) il sospetto diagnostico, quanto meno in termini di generica ostruzione, e
  • prescrivere accertamenti ulteriori finalizzati a confermare il sospetto: gli esami (visita pneumologica approfondita eventualmente completata da spirometria ed esame broncoscopico) avrebbero consentito di avvalorare il sospetto e conseguentemente di intervenire tempestivamente con un intervento chirurgico, che a quella data avrebbe ancora potuto essere, “con alto grado di razionalità logica”, salvifico.

E’, peraltro, principio ribadito nella giurisprudenza di legittimità che

in tema di colpa professionale medica, l’errore diagnostico si configur(a) non solo quando, in presenza di uno o più sintomi di una malattia, non si riesca ad inquadrare il caso clinico in una patologia nota alla scienza o si addivenga ad un inquadramento erroneo, ma anche quando si ometta di eseguire o disporre controlli e accertamenti doverosi ai fini di una corretta formulazione della diagnosi”.

Ancora in punto di responsabilità per attività medica d’équipe

Sul secondo punto – e cioè in merito alla mancata considerazione del ragionevole affidamento operato dai medici imputati sul corretto operato dei colleghi che, nei giorni precedenti, avevano visitato il bambino e formulato la diagnosi di bronchite, e dell’assenza di ragioni per le quali i medici successivi si sarebbero dovuti discostare da tale diagnosi – la Cassazione fa presente che

– il principio dell’affidamento è stato elaborato dalla giurisprudenza di legittimità in relazione alla attività sanitaria in équipe, ovvero alle ipotesi in cui più soggetti, medici e/o paramedici, svolgono attività di cura del paziente in maniera coordinata, congiuntamente, nello stesso contesto spazio-temporale, ovvero in maniera disgiunta, in contesti temporali diversi, realizzando un fenomeno di successione nel tempo nella posizione di garanzia.

Di regola, la plurisoggettività si accompagna ad una suddivisione di compiti, essendo ciascun operante specializzato in una determinata branca medica che deve trovare sbocco nella cura del paziente.

Nell’ambito del gruppo, ciascun medico è responsabile per l’errore proprio, avente genesi nella violazione delle regole cautelari specificamente previste per il proprio settore di specializzazione, non potendo muoversi allo stesso alcun rimprovero per non aver previsto e/o non aver posto rimedio all’errore altrui causalmente collegato all’esito infausto.

“In tema di colpa professionale, in caso di intervento chirurgico in équipe, il principio per cui ogni sanitario è tenuto a vigilare sulla correttezza dell’attività altrui, se del caso ponendo rimedio ad errori che siano evidenti e non settoriali, rilevabili ed emendabili con l’ausilio delle comuni conoscenza scientifiche del professionista medio, non opera in relazione alle fasi dell’intervento in cui i ruoli e i compiti di ciascun operatore sono nettamente distinti, dovendo trovare applicazione il diverso principio dell’affidamento per cui può rispondere dell’errore o dell’omissione solo colui che abbia in quel momento la direzione dell’intervento o che abbia commesso un errore riferibile alla sua specifica competenza medica, non potendosi trasformare l’onere di vigilanza in un obbligo generalizzato di costante raccomandazione al rispetto delle regole cautelari e di invasione negli spazi di competenza altrui.”

Nei casi in cui il medico (garante) precedente abbia posto in essere una condotta colposa che abbia avuto efficacia causale nella determinazione dell’evento, unitamente alla condotta colposa del medico (garante) successivo, persiste la responsabilità anche del primo, in base al principio di equivalenza delle cause, a meno che possa affermarsi l’efficacia esclusiva della causa sopravvenuta, che deve avere carattere di eccezionalità ed imprevedibilità.

Secondo la Suprema Corte, nel caso in esame, non vi era stata un’azione in équipe, bensì interventi distinti e svincolati l’uno dall’altro da parte di più sanitari: nessun rilievo, pertanto, potevano assumere, ai fini della valutazione della condotta dei medici successivi, le diagnosi formulate dai medici intervenuti prima di loro, e ciò anche indipendentemente dal fatto che le condizioni del bambino all’ultima visita erano certamente peggiorate rispetto ai giorni precedenti e che a quella data i sintomi tipici della ostruzione delle vie aeree superiori erano ormai conclamati.

Per concludere

Alla luce di quanto precede, la Cassazione ha dichiarato inammissibili i ricorsi dei sanitari e condannato i ricorrenti al pagamento delle spese processuali, anche delle parti civili, e di una somma a favore della cassa delle ammende.

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LEGGI LA SENTENZA

Cassazione Penale, Sez. IV, n. 36044 del 26 settembre 2022