Incompletezza della cartella clinica e responsabilità medica per il decesso del paziente

L’incompletezza della cartella clinica potrà far presumere come provati in giudizio i fatti in essa non annotati ed il nesso fra gli stessi ed il danno alla salute riportato dal paziente, ma solo qualora il medico abbia posto in essere una condotta astrattamente idonea a provocare il danno, e proprio la sua mancata annotazione nella documentazione clinica, addebitabile allo stesso professionista, abbia reso impossibile l’accertamento del nesso causale tra detto comportamento ed il danno riportato dal paziente.

Oggi torniamo sul tema delle modalità di compilazione della cartella clinica e su come la giurisprudenza più recente della Corte di Cassazione valuta l’eventuale incompletezza della stessa nella dinamica dell’onere della prova in giudizio.

Il caso

Una paziente anziana, con sintomi di dolore addominale, viene sottoposta – nell’arco di circa un anno – a ripetuti quanto infruttuosi ricoveri ed esami diagnostici; solo l’ultimo intervento di emicolectomia, peraltro eseguito in via d’urgenza e che le risulterà fatale, rivelerà ex post che le sofferenze della paziente erano ascrivibili ad una neoplasia (adenoma villoso).

I figli della paziente agiscono dunque in giudizio per ottenere il risarcimento dei danni sofferti, imputando il decesso della madre alla inidonea assistenza prestata alla stessa.

Tuttavia, la consulenza tecnica d’ufficio svolta in corso di causa non riesce ad ascrivere con certezza la causa della morte né alla neoplasia né all’intervento chirurgico, ad accertare se la neoplasia fosse diagnosticabile in occasione di uno dei ripetuti ricoveri ospedalieri, né se una tempestiva diagnosi avrebbe garantito la sopravvivenza della donna o una più lunga aspettativa di vita.

Nonostante ciò, il Tribunale condanna l’ASUR ed il medico convenuto in giudizio al pagamento di Euro 20.000,00 ciascuno a favore degli eredi, a titolo di inadempimento contrattuale e di omessa informazione.

La Corte d’Appello sovverte la prima pronuncia, ritenendo non provata la connessione causale tra le omissioni attribuite ai medici e la morte della paziente, e condanna gli eredi alla restituzione di quanto già ricevuto in forza della sentenza di primo grado ed al rimborso delle spese dei due gradi del giudizio.

I figli della paziente impugnano la sentenza in Cassazione, contestando che l’incerta individuazione delle cause del decesso della madre fosse interamente dovuta all’inadeguata tenuta della cartella clinica da parte dei medici curanti, la cui lacunosità rendeva difficilmente ricostruibili i diversi passaggi diagnostici e terapeutici e la cui mancanza di un diario clinico, che includesse le ipotesi diagnostiche formulate, rendeva impossibile valutare il comportamento dei sanitari e verificare che cosa li avesse indotti ad eseguire un intervento chirurgico d’urgenza.

Vediamo qual è l’esito della valutazione della Corte di Cassazione.

Il principio di prossimità della prova…

Secondo i ricorrenti, nel caso in commento avrebbe dovuto trovare applicazione l’orientamento della Cassazione secondo cui, in ossequio al principio di prossimità della prova, proprio l’incompletezza della cartella clinica costituisce un indizio da cui dedurre presuntivamente sia la prova del nesso causale a carico del medico, sia il riconoscimento della sua responsabilità. Infatti, nel caso concreto, la prova della condotta scorretta dei medici non poteva essere data proprio a causa dell’omessa registrazione in cartella clinica, ascrivibile agli stessi medici: l’incompletezza della cartella avrebbe dunque danneggiato solo i ricorrenti, “parte debole” del rapporto, che nessun controllo potevano aver avuto in merito al contenuto dei documenti clinici della paziente.

Posto che era inammissibile che proprio i medici, inadempienti ai propri obblighi di corretta tenuta della documentazione clinica, potessero trarre giovamento dall’incompletezza da loro causata, i fatti non registrati in cartella clinica dovevano darsi presuntivamente per avverati.

… ed i suoi correttivi

Secondo la Corte di Cassazione, è ben vero che nel caso concreto il CTU non era stato in grado di individuare la causa del decesso della paziente e che, in risposta al quesito specificamente posto dal giudice sulla causa della morte, aveva attribuito tale incertezza “sia all’assenza di riscontro diagnostico che ne potesse definire con certezza i momenti patogenetici sia per l’assenza nella cartella clinica di un diario cui potersi riferire circa le ipotesi diagnostiche avanzate dai professionisti ed il percorso che li aveva portati ad un intervento chirurgico“.

La Corte d’Appello non aveva però sbagliato a gravare di tale incertezza gli eredi della paziente.

Infatti, nell’ambito della responsabilità contrattuale, spetta a chi si assume danneggiato fornire la prova del nesso di causa fra l’inadempimento del debitore (medico o struttura sanitaria) ed il pregiudizio subito alla salute (cd. causalità materiale), con la conseguenza che se la causa dell’evento di danno (cioè l’aggravamento della situazione patologica o l’insorgenza di nuove patologie) resta ignota, le conseguenze sfavorevoli ai fini del giudizio ricadono sul creditore della prestazione professionale, ovverosia sul paziente.

È altrettanto vero che sono i medici a compilare i documenti clinici, e dunque va sempre tenuto conto dell’eventuale irregolarità della loro tenuta, perché diversamente verrebbe a giovarsi di tale irregolarità proprio a colui l’ha causata; tuttavia, le omissioni della cartella clinica non conducono automaticamente a ritenere adempiuto l’onere della prova da parte di chi adduce di essere danneggiato.

“Il rilievo della difettosa tenuta della cartella clinica è tale da far ritenere provato il nesso di causalità materiale solo quando proprio l’incompletezza della cartella clinica abbia reso impossibile l’accertamento del relativo nesso eziologico e il professionista abbia comunque posto in essere una condotta astrattamente idonea a provocare il danno”

(così Cass. 14/11/2019, n. 29498: per approfondimenti, vedi anche il mio precedente post “Cartella clinica lacunosa: le regole dell’onere della prova in giudizio”).

L’attenzione va dunque focalizzata innanzitutto sul primo elemento logicamente da vagliare, cioè sulla condotta dei sanitari, al fine di verificare se essa abbia avuto l’astratta idoneità di causare l’evento dannoso (decesso del paziente) in quanto, in caso contrario, non occorrerebbe alcuna ulteriore ricostruzione fattuale, né ipotetica in merito al contenuto dei documenti clinici pur incompleti.

La soluzione nel caso di specie

Nel caso di specie il CTU, ai quesiti se la neoplasia fosse diagnosticabile in occasione dei primi ricoveri dell’anziana paziente e se una diagnosi precoce ne avrebbe garantito la sopravvivenza o un’aspettativa di vita più lunga, ha risposto negativamente, escludendo che l’evoluzione clinica generale della paziente sarebbe stata diversa se anche l’adenoma villoso fosse stato diagnosticato al primo ricovero, e ritenendo estremamente difficile sostenere, a fronte delle differenti patologie che affliggevano la vittima, che una diagnosi precoce della neoplasia avrebbe potuto evitare l’intervento chirurgico d’urgenza e/o consentito di aggredire la neoplasia in uno stadio di sviluppo meno avanzato.

La condotta dei sanitari non era stata dunque ritenuta astrattamente idonea a cagionare l’evento di danno, per cui risultava indifferente che l’incompletezza della cartella fosse tale da impedire la ricostruzione fattuale e la connessione causale fra condotta sanitaria ed evento.

La Cassazione ha dunque rigettato il ricorso e condannato i ricorrenti al pagamento delle spese del giudizio ed al versamento di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato.

Ci aggiorniamo la prossima settimana con un nuovo, interessante argomento.

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LEGGI LA SENTENZA

Cass. Civ., Sez. III, n. 14261, dep. 8 luglio 2020