Trattamenti medici e minori: quali le condizioni del consenso?

Esprimere il consenso ad un trattamento sanitario, ponendo una condizione non attuabile, equivale a non esprimerlo.
Il paziente non può infatti esigere trattamenti sanitari contrari alla deontologia professionale o alle buone pratiche clinico-assistenziali, incidendo sulla sfera di autodeterminazione del medico che, in questo caso, può rifiutare l’intervento.


Oggi vi segnalo un’interessante ordinanza della Prima Sezione della Corte di Cassazione (n. 2549 del 3.2.2025) sul tema del consenso informato ai trattamenti terapeutici concernenti i minori.

 

Il caso

Un intervento chirurgico con elevata probabilità di trasfusione di sangue viene programmato per un bimbo di soli due anni, affetto da una grave malformazione cardiaca.
genitori esprimono un “consenso condizionato” all’intervento, rappresentando alla struttura di voler prestare il consenso ad eventuali trasfusioni solo a condizione che il sangue provenga da donatori non vaccinati contro il Covid-19, attivandosi per raccogliere personalmente la disponibilità di donatori rispondenti al suddetto requisito.
La struttura sanitaria presenta ricorso al Giudice Tutelare chiedendo di autorizzare con urgenza la prestazione del consenso all’intervento chirurgico ed all’eventuale trasfusione non vincolata.
Il Giudice tutelare, ritenendo invalido il consenso “condizionato” espresso dai genitori, accoglie il ricorso dell’ospedale e nomina il Direttore Generale quale curatore del minore al fine di esprimere il consenso all’intervento.
Il provvedimento viene reclamato, ma anche in questa sede la richiesta dei genitori viene rigettata.
Vediamo qual è la posizione della Cassazione sulla vicenda.

 

La legge DAT ed il consenso ai trattamenti sanitari su minori

Secondo la Cassazione, nel caso in commento il Giudice tutelare ha correttamente adottato la sua decisione ai sensi dell’art. 3, comma 5, della legge n. 219/2017, comunemente nota come legge sul consenso informato e sulle direttive anticipate di trattamento (la cd. legge DAT). Ma facciamo un passo indietro.
Sappiamo che il minore non ha il libero esercizio dei diritti che gli competono e – anche nell’ambito della salute – è legalmente rappresentato dai suoi genitori.
In tema di trattamenti sanitari del minore, l’art. 3 della citata Legge chiarisce come e con quali limiti può essere esercitato il potere di rappresentanza dei genitori in materia di trattamenti sanitari, stabilendo una procedimentalizzazione per la formazione e manifestazione del consenso.
L’art. 3, comma 2 della legge DAT prevede che

il consenso informato al trattamento sanitario del minore è espresso o rifiutato dagli esercenti la responsabilità genitoriale o dal tutore tenendo conto della volontà della persona minore, in relazione alla sua età e al suo grado di maturità, e avendo come scopo la tutela della salute psicofisica e della vita del minore nel pieno rispetto della sua dignità“.

L’esercizio della responsabilità genitoriale è dunque governato dalla regola dell’accordo tra i genitori ed è finalizzato ad attuare il miglior interesse del minore, nel rispetto delle capacità, inclinazioni naturali ed aspirazioni del minore stesso.
Esprimere o negare il consenso spetta quindi ai genitori, ma essi devono:

  1. tenere conto della volontà del minore, tramite il suo ascolto, “in relazione alla sua età e al suo grado di maturità” e cioè anche a prescindere dal fatto che abbia compiuto i dodici anni;
  2. avere come scopo la tutela della salute psicofisica e della vita del minore nel pieno rispetto della sua dignità e quindi dare spazio anche al parere dei medici, e in genere della comunità scientifica, poiché questo consente di ancorare la scelta ad un dato oggettivo e di perseguire effettivamente lo scopo.

 

I limiti alla rappresentanza del minore da parte dei genitori

Il nostro ordinamento conosce ipotesi di controllo e limitazione della responsabilità genitoriale, essenzialmente collegate alla trascuratezza dei doveri o abuso della funzione che comporti un pregiudizio al figlio.
In tema di consenso alle cure, un caso particolare da considerare è quello del possibile conflitto tra medici e genitori in merito alle cure da somministrare al minore.
Non dimentichiamo infatti che il consenso alle cure è un atto complesso, che si perfeziona per effetto non solo di una dichiarazione di volontà del paziente (o del suo rappresentante), ma in esito ad un processo partecipativo vede impegnata anche la competenza del medico e la sua responsabilità professionale. Nel consenso informato, pertanto,

“si incontrano l’autonomia decisionale del paziente e la competenza, l’autonomia professionale e la responsabilità del medico” (art. 1, co. 1 e 2 Legge 219/2017).

Nell’alveo di questa responsabilità, propria della relazione di cura e strettamente connessa alla deontologia professionale, rientra il dovere del medico di indirizzare il paziente al trattamento sanitario adeguato alle sue condizioni.
Qualora emerga un conflitto tra genitori e medici in relazione alle cure da quest’ultimi proposte, entra dunque in gioco l’art. 3, co. 5 della legge DAT, il quale prevede che

Nel caso in cui… il rappresentante legale della persona minore rifiuti le cure proposte e il medico ritenga invece che queste siano appropriate e necessarie, la decisione è rimessa al giudice tutelare su ricorso del rappresentante legale della persona interessata o dei soggetti di cui agli articoli 406 e seguenti del codice o del medico o del rappresentante legale della struttura sanitaria.

Pertanto, a far data dalla entrata in vigore della legge n. 219/2017, in tutti casi in cui i genitori (o il tutore) di un minore rifiutino le cure proposte e il medico ritenga invece che queste siano appropriate e necessarie, deve ricorrersi al Giudice tutelare. Il meccanismo dell’art. 3, co. 5 consente a quest’ultimo di decidere se un certo intervento/trattamento possa aver luogo anche senza il consenso dei genitori, direttamente provvedendo in merito, nell’ottica di assicurare che la soluzione scelta sia quella che realizza il miglior interesse del minore, in un ambito ove le scelte comportano effetti potenzialmente irreversibili nella vita dell’interessato.

 

La decisione della Cassazione nel caso di specie

Secondo la Cassazione, nel caso in commento, la decisione del Giudice tutelare è stata corretta.
Senza entrare nel merito delle obiezioni di carattere religioso e scientifico sollevate dai genitori e delle risposte date al riguardo dalla Cassazione, che possono essere lette nel provvedimento allegato, due sono i passaggi che desidero evidenziare.
In primo luogo, dagli atti e dalle difese delle parti era emerso che, per quanto fosse (verosimilmente) possibile entrare in possesso di una certa quantità di sangue da donatori non vaccinatil’azienda ospedaliera si atteneva a protocolli che impedivano il ricorso a questa soluzione (sia per adeguarsi alle linee guida e alla Raccomandazione del Consiglio d’Europa sulla donazione periodica ed anonima, sia per tutelare la libertà di scelta dei suoi medici, sia per ragioni economiche).
D’altra parte, per quanto altre aziende ospedaliere avessero adottato protocolli diversi e fossero disponibili alla raccolta del sangue coi requisiti domandati dai genitori, gli stessi avevano comunque deciso di mantenere il figlio nella prima struttura.
È pertanto evidente che la scelta fatta dai genitori non potesse gravare inutilmente i protocolli (e le finanze) dell’ospedale, incidendo altresì sulla sfera di autodeterminazione dei medici.
In secondo luogo è interessante notare che, secondo la Corte di Cassazione, il “consenso condizionato” espresso dai genitori del minore equivale ad un non-consenso:

Esprimere il consenso ad un trattamento sanitario ponendo una condizione non attuabile equivale a non esprimerlo. Il paziente non può infatti esigere trattamenti sanitari contrari alla deontologia professionale o alle buone pratiche clinico-assistenziali, incidendo sulla sfera di autodeterminazione del medico che in questo caso può rifiutare l’intervento”.

La condizione al consenso posta dai genitori, non attuabile per la struttura da loro scelta, viziava dunque l’intero consenso all’intervento, che doveva ritenersi come non prestato.

 

Per concludere

Alla luce di quanto precede, la Cassazione ha rigettato il ricorso, compensando le spese tra le parti.

 

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Cass. Civ., Sez. I, n. 2549 del 3.2.2025