Linee guida o buone prassi: cosa applicare ai pazienti a rischio?

Le linee guida non sono uno “scudo” contro ogni ipotesi di responsabilità, ma vanno considerate uno strumento di indirizzo e di orientamento, la cui efficacia e forza precettiva dipendono dalla dimostrata “adeguatezza” alle specificità del caso concreto.

Ne consegue che, nel caso in cui tali raccomandazioni non siano adeguate rispetto all’obiettivo della miglior cura per lo specifico caso del paziente, l’esercente la professione sanitaria ha il dovere di discostarsene, eventualmente applicando le buone prassi indicate nel caso concreto.

Oggi vi segnalo un’interessante sentenza della Cassazione Penale, pubblicata alcune settimane fa (n. 40316 del 4.11.2024), che torna sul tema della pretensibilità dell’applicazione delle linee guida e delle buone prassi in pazienti che presentano condizioni di alto rischio clinico.

Il caso

Una signora, già cesarizzata due volte, al termine di un’ulteriore gravidanza, si presenta in ospedale con algie pelviche. La stessa viene inserita in reparto ed ivi lasciata sola per circa quattro ore, con una flebo contenente un farmaco per bloccare temporaneamente le contrazioni, senza alcun controllo cardiotocografico, né monitoraggio della ripresa del travaglio, e ciò nonostante la stessa continuasse a stare male (vomito) e ad accusare i sintomi che erano stati segni premonitori del parto nelle due precedenti gravidanze. Non viene dunque rilevata tempestivamente la rottura della parete uterina, né il conseguente choc emorragico e la lipotimia successiva; la grave e prolungata sofferenza ipossica causa il decesso del bambino.

A seguito di denuncia penale, il caso arriva fino alla Cassazione e poi torna, a seguito di sentenza di annullamento, alla decisione della Corte d’Appello. Quest’ultima conferma la condanna della ginecologa di turno per omicidio colposo del bambino (con pena – sospesa – di mesi cinque di reclusione), qualificato da imperizia grave, per:

  • non avere valutato correttamente i segni clinici e lo stato della paziente, la quale peraltro era ben nota al medico
  • aver omesso di predisporre ed eseguire in maniera costante il controllo cardiotocografico ed il monitoraggio della ripresa del travaglio e dei suoi effetti sulla pregressa cicatrice isterotomica, e
  • la mancata tempestiva diagnosi di pericolo di rottura dell’utero, poi avvenuta, con decesso del bimbo.

Linee guida o buone prassi?

Secondo i consulenti tecnici che hanno riesaminato il caso in appello, le specifiche condizioni della paziente – pur in assenza di linee guida che imponessero di disporre il monitoraggio continuo – imponevano, per i molti fattori di rischio presenti, che alla donna venisse garantita una adeguata sorveglianza clinica e un monitoraggio elettronico fetale continuo nella fase attiva di travaglio e nella fase di “prodromi da travaglio”.

Il monitoraggio attivo e continuo costituiva condotta doverosa a livello di buone prassi, al fine di prevenire la rottura dell’utero e comunque di garantire una tempestiva rilevazione dell’evento, con un rapido intervento che con elevata probabilità avrebbe salvato il bambino.

Il medico impugna la decisione sostenendo che, sulla base delle linee guida del tempo, il parto vaginale non era considerato controindicato nella donna bicesarizzata e che il monitoraggio continuo era imposto solo in presenza di determinate condizioni, non ricorrenti nel caso concreto. La condotta tenuta sarebbe dunque stata corretta.

Vediamo qual è la decisione della Corte di Cassazione.

Natura e limiti di applicabilità delle linee guida

Ricordo che, ai sensi dell’art. 5 della Legge Gelli-Bianco, i sanitari “si attengono, salve le specificità del caso concreto, alle raccomandazioni previste dalle linee guida” pubblicate nel Sistema nazionale per le linee guida (SNLG) “e, in mancanza, alle buone pratiche clinico-assistenziali”. In caso di decesso o lesioni gravi a danno del paziente, causati da imperizia,la punibilità del sanitario è esclusa quando sono rispettate le raccomandazioni previste dalle linee guida come definite e pubblicate ai sensi di legge ovvero, in mancanza di queste, le buone pratiche clinico-assistenziali, sempre che le raccomandazioni previste dalle predette linee guida risultino adeguate alle specificità del caso concreto”.

Nel caso che commentiamo, trova ancora applicazione la Legge Balduzzi, che prevedeva – con maggior favore per il sanitario – l’esclusione della responsabilità penale per l’esercente la professione sanitaria che si fosse attenuto a linee guida e buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica e la cui condotta fosse stata caratterizzata da colpa lieve.

Sulla natura delle linee guida, la giurisprudenza di legittimità ha nel tempo assunto posizioni consolidate, ricordate dalla sentenza allegata e che si possono riassumere come di seguito:

  • le linee guida non offrono standard legali e precostituiti (Cass. Pen., n. 6237/2013) e non hanno carattere precettivo come quello attribuito delle regole cautelari codificate, poiché hanno un più ampio margine di flessibilità e non sono esaustive; le stesse hanno pertanto rilievo sul piano orientativo della condotta dell’operatore sanitario (Cass. Pen., n. 7849/2022), fatte salve le specificità del caso concreto;
  • le linee guida costituiscono “regole cautelari valide solo se adeguate rispetto all’obiettivo della migliore cura per lo specifico caso del paziente“;
  • pertanto, il rispetto di linee guida accreditate presso la comunità scientifica non determina di per sé l’esonero della responsabilità penale del sanitario, dovendo comunque accertarsi se la specificità del quadro clinico del paziente imponga un percorso terapeutico diverso rispetto a quello indicato da dette linee guida (Cass. Pen., n. 24455/2015);
  • ne consegue che, in presenza di specifici fattori di rischio, nel caso in cui tali raccomandazioni non siano adeguata rispetto all’obiettivo della miglior cura per lo specifico caso del paziente, l’esercente la professione sanitaria ha il dovere di discostarsene.

“Le linee guida non sono uno scudo contro ogni ipotesi di responsabilità, essendo la loro efficacia e forza precettiva comunque dipendenti dalla dimostrata “adeguatezza” alle specificità del caso concreto che è anche l’apprezzamento che resta, per il sanitario, il mezzo attraverso il quale superare l’autonomia nell’espletare il proprio talento professionale e, per la collettività, quello per vedere dissolto il rischio di appiattimenti burocratici”.

L’applicazione dei principi nel caso concreto

Vediamo come la Suprema Corte ha ritenuto applicabili i sopra indicati principi al caso della povera paziente.

Una volta individuata la regola cautelare da osservare – ovverosia il monitoraggio continuo della paziente – la Cassazione ha ritenuto che, se la paziente fosse stata regolarmente controllata nelle quattro ore in cui era rimasta in reparto, ciò avrebbe permesso di rilevare i segni della rottura dell’utero, con esecuzione di un intervento immediato ed elevata probabilità di salvare il bambino.

Alla luce di quanto precede è stato ritenuto evidente che le linee guida al tempo applicabili, che non prescrivevano il continuo monitoraggio della gestante pur in presenza di segni critici, erano inadeguate al caso concreto in rapporto allo specifico rischio di rottura dell’utero, che imponeva invece come prudente un controllo continuo: tale mancato adeguamento è stato ritenuto imputabile al medico a titolo di colpa grave,

“essendo mancata, da parte del medico, non solo la valutazione dell’adeguatezza delle linee guida al caso concreto, ma altresì l’individuazione della regola cautelare per prevenire il rischio specifico della rottura dell’utero che, nel contesto specifico, non era affatto imprevedibile.

Nella concomitante presenza di tutti i suddetti fattori, ovverosia il fatto che la gestante avesse in passato già subito due cesarei con correlata cicatrice, che presentasse algie pelviche e che accusasse i segni premonitori del parto malgrado la mancata dilatazione dell’utero, si imponeva, pertanto secondo le buone prassi mediche, quale condotta doverosa, il monitoraggio costante della paziente.”

Per concludere

Alla luce di quanto precede, la Corte ha rigetta il ricorso, confermato la condanna e condannato il medico al pagamento delle spese processuali.

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LEGGI LA SENTENZA

Cassazione Penale, Sez. III, n. 40316 del 4.11.2024