Infezioni nosocomiali, danno e nesso causale secondo la Cassazione

In tema di inadempimento di obbligazioni di diligenza professionale sanitaria, il danno-evento non è la violazione delle “leges artis” nella cura del paziente, ma il danno del diritto alla salute di quest’ultimo, che è l’interesse primario presupposto a quello contrattualmente regolato.

Cari lettori,

i fatti di cronaca degli ultimi giorni hanno nuovamente scaldato il dibattito in tema di infezioni nosocomiali, rendendolo rovente. Oggi vi segnalo un’interessante sentenza della Cassazione (Sez. III, n. 11599 del 15 giugno 2020) in materia, depositata all’inizio dell’estate.

Il caso

Una paziente viene ricoverata in una struttura ospedaliera per un intervento agli occhi (vitrectomia in sindrome da interfacie vitroretina dell’occhio sinistro) e contrae un’infezione nosocomiale, a causa della quale riporta vari danni (forti dolori e dednoftalmite ad un occhio).

La paziente agisce dunque in giudizio contro l’Azienda Ospedaliera per ottenere il risarcimento dei danni subiti.

Il Tribunale rigetta la domanda, ritenendo che la paziente non abbia allegato un “inadempimento qualificato” dell’Azienda ospedaliera ed abbia mal qualificato la responsabilità di quest’ultima in termini di responsabilità oggettiva.

La Corte d’Appello capovolge invece l’esito della sentenza di primo grado e condanna l’Azienda sanitaria al risarcimento dei danni. Secondo la Corte, il Tribunale ha dato un’interpretazione formalistica dei principi in materia, non individuando adeguatamente gli elementi addotti dalla paziente per fondare la sua domanda e non valorizzando la circostanza che la difesa dell’Azienda Sanitaria fosse, di fatto, limitata al deposito in giudizio dei protocolli per le medicazioni post-operatorie in uso, senza prova della loro concreta attuazione.

Vediamo qual è l’esito del giudizio in Cassazione.

La responsabilità della struttura per infezioni nosocomiali è una forma di responsabilità oggettiva?

Il fulcro della discussione in giudizio verte sull’onere della prova del nesso causale in materia di infezioni nosocomiali, ovverosia su cosa dovrebbe dedurre, da un lato, il paziente per provare di aver subito un danno (ricollegabile all’inadempimento di un atto dovuto da parte della struttura sanitaria) e, dall’altro lato, come dovrebbe difendersi la struttura sanitaria, cioè in cosa consiste la cosiddetta “prova liberatoria”.

Secondo la Cassazione, la sentenza in grado d’appello è stata corretta nel ritenere che la paziente avesse effettivamente denunciato un inadempimento qualificato della struttura sanitaria, consistente nel non essersi attenuta rigidamente alle misure precauzionali indicate nei suoi stessi protocolli post-operatori.

In secondo luogo, l’infezione da stafilococco faecalis che affliggeva la paziente all’uscita dell’ospedale doveva ragionevolmente ritenersi conseguenza di una falla nell’attuazione dei protocolli antisepsi da parte della struttura e ciò sulla base di un ragionamento probabilistico, basato sul principio del “più probabile che non”, in considerazione delle seguenti circostanze:

  • la paziente non soffriva di alcuna infezione all’occhio prima del suo ricovero in ospedale per l’operazione
  • a seguito dell’operazione alla quale era stata sottoposta, la paziente aveva subito il bendaggio dell’occhio, che rendeva la zona inaccessibile al contatto
  • su tale zona potevano intervenire, per la rimozione delle medicazioni e la loro sostituzione, soltanto i medici ed il personale dell’ospedale.

La struttura sanitaria non era dunque responsabile non a titolo di responsabilità oggettiva, ma secondo le regole ordinarie della responsabilità contrattuale applicabili in materia.

Il nesso di causalità materiale in materia di infezioni

Secondo la Cassazione, la decisione è conforme al principio di diritto recentemente riaffermato in una delle sentenze del cosiddetto “decalogo di San Martino 2019”, sulla base della quale

“In tema di inadempimento di obbligazioni di diligenza professionale sanitaria, il danno-evento consta della lesione non dell’interesse strumentale alla cui soddisfazione è preposta l’obbligazione (perseguimento delle “leges artis” nella cura dell’interesse del creditore) ma del diritto alla salute (interesse primario presupposto a quello contrattualmente regolato); sicché, ove sia dedotta la responsabilità contrattuale del sanitario per l’inadempimento della prestazione di diligenza professionale e la lesione del diritto alla salute, è onere del danneggiato provare, anche a mezzo di presunzioni, il nesso di causalità fra l’aggravamento della situazione patologica (o l’insorgenza di nuove patologie) e la condotta del sanitario, mentre è onere della parte debitrice provare, ove il creditore abbia assolto il proprio onere probatorio, la causa imprevedibile ed inevitabile dell’impossibilità dell’esatta esecuzione della prestazione”

(così Cass. Civ., Sez. III, n. 28991 dell’11 novembre 2019).

Più termini più semplici, nelle cause di responsabilità sanitaria, il danno-evento non consiste nella violazione delle leges artis in sé considerate, bensì nella violazione del diritto alla salute del paziente; ne consegue che, ove sia dedotta una responsabilità di natura contrattuale del sanitario, il paziente è tenuto a provare, anche a mezzo di presunzioni, che esiste un collegamento causale tra la condotta del sanitario e l’insorgenza della malattia nuova (o l’aggravamento di una patologia preesistente) lamentata dal paziente stesso. Fornita questa prova, la struttura sanitaria – per difendersi – è tenuta a provare che l’inadempimento è dovuto ad una causa “imprevedibile ed inevitabile”, che ha reso impossibile il corretto adempimento della prestazione.

Nel caso in commento, la Corte d’Appello ha ritenuto che la paziente avesse correttamente fornito la prova del nesso di causalità materiale tra l’evento lesivo (danno all’occhio) e comportamento della struttura mediante un ragionamento probabilistico, basato sulle presunzioni sopra viste e dunque correttamente deducendo da fatti noti (assenza dell’infezione all’ingresso in ospedale; accesso alla zona infetta solo da parte dei dipendenti dell’ospedale) il fatto ignoto (cioè il comportamento attivo o omissivo di un dipendente dell’ospedale quale causa del contagio).

A fronte di ciò, la semplice produzione, da parte della struttura sanitaria, dei protocolli ospedalieri per le medicazioni in fase post-operatoria è stata ritenuta insufficiente ad integrare la prova liberatoria che il danno subito dalla paziente si fosse verificato per causa a sé non imputabile.

Sul dibattuto tema della prova liberatoria, si vedano anche i miei precedenti post “Infezioni nosocomiali, prova liberatoria e ripartizione delle responsabilità tra medici e struttura” (http://avvocatoelenabassan.it/2020/05/13/infezioni-nosocomiali-prova-liberatoria-e-ripartizione-delle-responsabilita-tra-medici-e-struttura/) e “Le infezioni ospedaliere: un problema grave e diffuso”.  http://avvocatoelenabassan.it/2018/10/31/le-infezioni-ospedaliere-un-problema-grave-e-diffuso/

Si veda inoltre “La vita dopo l’emergenza Coronavirus: come affrontare le infezioni collegate all’assistenza?” (http://avvocatoelenabassan.it/2020/05/20/la-vita-dopo-lemergenza-coronavirus-come-affrontare-le-infezioni-collegate-allassistenza/) per degli utili spunti operativi.

Per concludere

Sulla base di quanto precede, il ricorso della struttura sanitaria è stato rigettato e la condanna di quest’ultima confermata, con ulteriore condanna della struttura al rimborso delle spese di giudizio ed al pagamento di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato.

Ci aggiorniamo presto con un altro, interessante argomento!

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LEGGI LA SENTENZA

Cass. Civ., Sez. III, n. 11599 del 15 giugno 2020