Omessa diagnosi di cancro e valutazione del nesso causale

In caso di mancata diagnosi, è configurabile un collegamento causale tra il comportamento omissivo del medico ed il pregiudizio subito dal paziente qualora, attraverso un criterio necessariamente probabilistico, si ritenga che l’opera del medico, se correttamente e prontamente prestata, avrebbe avuto serie ed apprezzabili possibilità di evitare il danno verificatosi; in altri termini, il medico sarà responsabile qualora, sulla base dell’applicazione del principio del “più probabile che non”, si ritenga che l’attività professionale omessa, se fosse stata prestata con diligenza e perizia scientifica, avrebbe evitato il verificarsi dell’evento-morte.

Oggi esaminiamo una recentissima sentenza della Suprema Corte (n. 8461 del 27 marzo 2019) che esamina il tema del nesso causale tra omessa tempestiva diagnosi di cancro da parte del sanitario e decesso del paziente.

 

Il caso

Nel gennaio 2003 una signora si sottopone ad una ecografia mammaria presso uno studio privato, all’esito della quale vengono individuate due formazioni, delle quali viene esclusa la natura di carcinoma o massa tumorale; a distanza di pochi giorni la paziente si sottopone a visita senologica presso la ASL locale: il medico incaricato esamina l’ecografia e visita la paziente, confermando la diagnosi già data ed escludendo la natura maligna delle formazioni riscontrate, così come la necessità di ulteriori approfondimenti e di asportazione dei noduli. Alla paziente viene suggerito di sottoporsi a controllo dopo sei mesi.

Nel successivo mese di ottobre la signora si reca presso altro studio diagnostico per rinnovare l’ecografia, ma l’esito è stavolta preoccupante e la paziente viene sollecitata a sottoporsi urgentemente a biopsia, la quale rivela la natura maligna ed aggressiva della patologia. In conseguenza di quanto sopra, la paziente deve essere sottoposta ad asportazione della mammella, cure chemioterapiche invasive e due ulteriori interventi di chirurgia plastica.

La paziente agisce dunque in giudizio contro l’ASL ed il medico per chiedere il risarcimento del danno subito per la ritardata diagnosi e per tutte le conseguenze che ne sono derivate – la sottoposizione a mastectomia radicale al posto di un intervento meno invasivo, la necessità di chemioterapia e di successiva terapia ormonale, l’aumento di prospettive di recidiva – ma, a seguito di recidiva della malattia, decede in corso di causa; deceduto nel frattempo anche il marito, la causa viene proseguita da un tutore per conto dei figli minori.

Il Tribunale, pur riscontrata la negligenza del medico dell’ASL, rigetta le domande avanzate contro lo stesso sulla base della considerazione che non erano emerse prove sufficienti a dimostrare il nesso causale tra l’omessa diagnosi ed il decesso della paziente, che si sarebbe in ogni caso verificato; la Corte d’Appello riforma parzialmente la decisione di primo grado, confermando la colpa medica e condannando ASL e medico al parziale risarcimento dei danni in favore dei figli, rapportandoli al periodo di potenziale maggior sopravvivenza – ritenuto essere di 2 anni – di cui la signora avrebbe potuto godere in caso di tempestiva diagnosi.

Contro tale sentenza viene presentato ricorso in Cassazione, che viene deciso con la sentenza oggi in commento.

 

La critica alla sentenza della Corte d’Appello

La prima critica mossa alla sentenza della Corte d’Appello concerne, in sostanza, l’allegata errata interpretazione del nesso causale nel caso di specie: la Corte si era infatti limitata a valutare se e quanto tempo in più avrebbe potuto vivere la paziente in caso di diagnosi corretta e tempestiva; secondo gli eredi, invece, la Corte avrebbe dovuto valutare se tale diagnosi avrebbe garantito – in termini percentuali – un maggior margine di sopravvivenza della paziente, evitandone l’evento-morte.

 

Come va interpretato il nesso causale in materia di omessa diagnosi medica

La Cassazione, decidendo sul ricorso, ribadisce innanzitutto i principi-cardine in tema di causalità in materia, ovverosia:

  • in tema di responsabilità civile, si applicano i principi di cui agli articoli 40 e 41 del codice penale, per cui un evento è da considerare causato da un altro, se il primo non si sarebbe verificato in assenza del secondo;
  • si applica inoltre il principio della cosiddetta “causalità adeguata” secondo cui, tra i vari eventi che possono verificarsi all’interno di una serie causale, vanno considerati solo quelli che – sulla base di una valutazione fatta ex antenon appaiano del tutto inverosimili;
  • sempre in materia civile, sotto il profilo della prova vige la regola della “preponderanza dell’evidenza”, ovverosia del “più probabile che non”, mentre nel processo penale la prova deve essere raggiunta “oltre il ragionevole dubbio”.

Sulla base di tali principi, secondo la Cassazione, considerato che il medico è tenuto a svolgere la sua attività professionale secondo canoni di diligenza e di perizia scientifica, il giudice, una volta accertata l’omissione di tale attività, può ritenere che:

  • in assenza di fattori alternativi, tale omissione sia stata la causa dell’evento lesivo, e che
  • per converso, la condotta doverosa, se fosse stata tenuta, avrebbe impedito il verificarsi dell’evento stesso.

Ed è stato altresì affermato che “anticipare il decesso di una persona già destinata a morire perché afflitta da una patologia, costituisce pur sempre una condotta legata da nesso di causalità rispetto all’evento morte, ed obbliga chi l’ha tenuta al risarcimento del danno”.

 

L’erronea valutazione della Corte d’Appello

Secondo la Cassazione, nel caso in commento la Corte d’Appello non ha adeguatamente valutato l’esito dell’integrazione della consulenza tecnica d’ufficio, secondo cui

° se il carcinoma fosse stato tempestivamente diagnosticato ed adeguatamente curato nel gennaio 2003, la paziente avrebbe avuto una probabilità di essere viva a 10 anni compresa tra il 75 e l’85%;

° unendo tali dati a quelli della consulenza originaria, il rischio morte della paziente a 10 anni si sarebbe ridotto, secondo il consulente, dal 21 al 7%.

Secondo la Cassazione, avendo la Corte d’Appello omesso di esaminare un fatto decisivo per il giudizio già oggetto di discussione tra le parti (e cioè l’impatto che l’omessa diagnosi aveva avuto sulle concrete possibilità di sopravvivenza della paziente), la decisione risultatane non è stata corretta e dovrà essere rivalutata da un diverso collegio della Corte d’Appello, che applicando il seguente principio:

è configurabile il nesso causale tra il comportamento omissivo del medico ed il pregiudizio subito dal paziente qualora attraverso un criterio necessariamente probabilistico, si ritenga che l’opera del medico, se correttamente e prontamente prestata, avrebbe avuto serie ed apprezzabili possibilità di evitare il danno verificatosi: laddove il danno dedotto sia costituito anche dall’evento morte sopraggiunto in corso di causa ed oggetto della domanda in quanto riconducibile al medesimo illecito, il giudice di merito, dopo aver provveduto all’esatta individuazione del petitum, dovrà applicare la regola della preponderanza dell’evidenza o del più probabile che non al nesso di causalità fra la condotta del medico e tutte le conseguenze dannose che da essa sono scaturite”.

A quanto precede la Corte ha altresì aggiunto che, ove la decisione del giudice sia fondata sulle risultanze di una CTU, l’accertamento tecnico svolto deve essere valutato nel suo complesso, tenendo conto anche dei chiarimenti integrativi prestati sui rilievi dei consulenti di parte: il mancato, completo esame delle risultanze della CTU integra un vizio della sentenza che può dunque essere fatto valere nel giudizio di cassazione, risolvendosi nell’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti.

Per approfondire il tema delle conseguenze dell’omessa tempestiva diagnosi di cancro, vedi anche il mio recente post tardiva diagnosi di cancro e violazione del diritto di autodeterminazione del paziente.

 

Ci aggiorniamo la prossima settimana con un altro, interessante argomento!

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LEGGI LA SENTENZA

Cassazione Civile, Sez. III, n. 8461 del 27 marzo 2019