Le infezioni ospedaliere: un problema grave e diffuso

Una volta accertato che il paziente ha contratto un’infezione nosocomiale, incombe alla struttura ospedaliera provare di aver adottato tutte le misure utili e necessarie per una corretta sanificazione ambientale al fine di evitare la contaminazione.

 

Il Tribunale di Roma ha recentemente approfondito il tema delle infezioni nosocomiali, evidenziando la gravità della problematica con la sentenza del 27 settembre 2018 che vi segnalo questa settimana.

 

Il caso

Un paziente, ricoverato in ospedale per disfunzione di protesi mitroaortica, viene sottoposto ad intervento chirurgico di impianto di valvole meccaniche in posizione aortica e mitralica previa sternotomia mediana, poi suturata con punti metallici.

Insorta infezione sternale, viene accertata la presenza di Corynebacterium Amycolatum ed il paziente sottoposto a terapia antibiotica. Risolta l’infezione il paziente viene dimesso ma, a distanza di circa 11 mesi, viene nuovamente ricoverato per recidiva dell’infezione, con conseguente necessità di rimozione dei fili metallici della sternotomia e nuova terapia antibiotica.

Il paziente agisce dunque in giudizio contro l’Ospedale avanti al Tribunale di Roma non per asseriti inadempimenti connessi all’intervento al cuore, bensì per la reiterata contrazione di infezione durante e a causa del ricovero ospedaliero.

 

Un problema grave e diffuso

Non vi è dubbio che le infezioni nosocomiali siano un problema grave ed attualmente non in declino. Secondo il Ministero della Salute, le infezioni correlate all’assistenza (ICA) – ovverosia contratte durante il ricovero ospedaliero, che non erano manifeste clinicamente né in incubazione al momento dell’ammissione, ma che compaiono durante o dopo il ricovero e da questo sono determinate –

sono la complicanza più frequente e grave dell’assistenza sanitaria”.

Sempre il Ministero evidenzia che un recente studio nazionale di prevalenza ha rilevato una frequenza di pazienti con una infezione contratta durante la degenza pari a 6,3 ogni 100 pazienti presenti in ospedale; nell’assistenza domiciliare 1 paziente ogni 100 contrae una ICA. Non tutte le ICA sono prevenibili, ma il Ministero stima attualmente che possa esserlo una quota superiore al 50%.

 

L’onere della prova grava sull’ospedale

La consulenza tecnica disposta dal Giudice nel caso in commento ha accertato che l’infezione della ferita fosse, a tutti gli effetti, di origine ospedaliera: l’infezione era infatti riferibile ad un batterio di origine nosocomiale (vale a dire che vive, prolifera, si rafforza e si caratterizza per la sua presenza in ambito ospedaliero), ed è stato accertato che il paziente non ne era affetto prima del ricovero.

L’origine nosocomiale dell’infezione non permette usualmente di individuare specificamente il luogo e il momento, il settore di attività, la causa scatenante, il punto debole della catena di protezione delle misure di sanificazione: tale incertezza è una costante delle vicende di questa tipologia, anche in sede giudiziale.

Le ICA rappresentano una contraddizione, un fallimento assistenziale, un peso economico, un reale problema emergente di sanità pubblica.

Tuttavia, accertato che il paziente ha contratto un’infezione nosocomiale, grava in ogni caso sulla struttura ospedaliera la prova di avere adottato tutte le misure utili e necessarie per una corretta sanificazione ambientale al fine di evitare la contaminazione, secondo i principi che regolano l’onere della prova in materia contrattuale (applicabile nel rapporto tra ospedale e paziente).

Non basta: l’ospedale deve anche fornire la prova che l’evento dannoso (il contagio) non rientra tra le complicanze prevedibili ed evitabili. Ma come può essere fornita tale prova negativa? Mediante la prova positiva, dice il Giudice,

di aver fatto tutto quanto la scienza ha finora escogitato per evitare o quanto meno ridurre al massimo il rischio di contaminazione e di diffusione del contagio.”

 

Quali sono le misure adottare in concreto per evitare il rischio?

Le misure da adottare – oltre alle ordinarie cautele di sanificazione verosimilmente adottate in qualsiasi struttura sanitaria – includono, per esempio:

° la costituzione di un organismo multidisciplinare responsabile dei programmi e delle strategie di lotta e di contrasto alle infezioni ospedaliere

° la predisposizione di percorsi di formazione e di sensibilizzazione del personale operante nella struttura al problema delle infezioni ospedaliere (IO) o correlate all’assistenza (ICA)

° l’adozione di specifici protocolli diretti all’applicazione, monitoraggio, aggiornamento e rettifica dei risultati delle pratiche dirette ad evitare o contenere le infezioni nosocomiali

° la creazione di un comitato o gruppo di lavoro deputato allo svolgimento delle attività che precedono

° il concreto monitoraggio dell’adesione a pratiche sicuramente in grado di influenzare il rischio per i pazienti di contrarre una complicanza infettiva, etc.

Solo con il raggiungimento dell’obiettivo del cd. rischio minimo (consistente nell’effettiva adozione di un insieme di procedure e di protocolli elaborati allo stato attuale dalla scienza del settore per ridurre al minimo il rischio di esposizione dei pazienti ad infezioni nosocomiali) potrà essere escluso che l’evento possa essere ascritto alle complicanze prevedibili ed evitabili.

 

Il monitoraggio dei comportamenti è il mezzo di prevenzione più efficace

Secondo il consulente nominato dal Tribunale, una recente revisione di migliaia di articoli sull’argomento svolta negli Stati Uniti ha evidenziato come tra medici ed infermieri il tasso di adesione alle buone pratiche di sanificazione raramente supera il 50%. Il mezzo più efficace ad alimentare condotte virtuose è stato, in tale studio, identificato in telecamere che riprendono gli operatori nella loro pratica quotidiana.

Alla luce di quanto precede,

è doveroso concludere che è completamente inutile elaborare protocolli e linee-guida da parte dei Comitati per le Infezioni Ospedaliere (C.I.O.) ma è necessario invece vigilare quotidianamente, nei modi possibili e fattibili, sull’applicazione di esse sul campo.

Secondo il Giudice del Tribunale di Roma, tale condivisibile considerazione implica che, ove sia provato che l’infezione sia di origine nosocomiale – ancorché l’evento scatenante non sia specificamente individuato – non sia sufficiente a ritenere soddisfatti gli obblighi di sanificazione la prova dell’emanazione di istruzioni e circolari da parte della struttura sanitaria, dovendosi in più dimostrare che tali attività hanno avuto

in concreto attuazione effettiva tramite specifiche attività di monitoraggio, riscontro, elaborazione e azioni positive conseguenti”.

 

Per concludere

Nel caso in commento, il Tribunale ha ritenuto che l’infezione sofferta dal paziente fosse ascrivibile ad un batterio, il Corynebacterium Amycolatum, sicuramente di origine nosocomiale; l’infezione sarebbe stata originariamente acquisita nella fase pre o post-operatoria, per poi cronicizzarsi tramite il biofilm microbico presente sui punti metallici di sutura. Per parte sua, l’Ospedale non avrebbe fornito prova adeguata di aver adottato tutte le misure richieste per prevenire l’infezione.

In definitiva, secondo il Tribunale, può affermarsi con assoluta certezza che l’infezione che ha colpito il paziente

presuppone indefettibilmente una qualche carenza, una deficienza di attenzione e di messa in opera in ordine alle procedure di sanificazione e di asetticità che devono costantemente garantire la sicurezza del paziente contro i contagi da infezioni nella struttura ospedaliera”.

Alla luce di quanto precede, la struttura sanitaria è stata condannata a risarcire al paziente un importo di circa 10.000,00 Euro.

 

In sintesi

Quello delle infezioni nosocomiali resta un problema grave tuttora da affrontare compiutamente; la creazione di protocolli comportamentali adeguati ed il concreto monitoraggio delle condotte “sul campo” possono tuttavia aiutare a ridurne drasticamente l’occorrenza e l’incidenza sulla salute dei pazienti.

 

Ci aggiorniamo la prossima settimana con un altro, interessante argomento!

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LEGGI LA SENTENZA

Tribunale di Roma, sentenza 27 settembre 2018