In tema di responsabilità medica da nascita indesiderata, il nato disabile, anche in stato vegetativo permanente, è a tutti gli effetti persona in senso pieno, che deve essere rispettata e tutelata nei suoi diritti fondamentali, a partire dal diritto alla vita e dal diritto alle prestazioni sanitarie
Questa settimana vi segnalo una recente sentenza della Corte di Cassazione in tema di responsabilità medica da omessa diagnosi delle patologie del feto.
Il caso
Una signora partorisce un bimbo affetto da grave quadro malformativo, non tempestivamente diagnosticato, che lo condurrà ad una vita esclusivamente vegetativa.
La signora ed il marito agiscono dunque in giudizio – in proprio e nella qualità di genitori esercenti la potestà sul figlio – contro la struttura ospedaliera ed i medici coinvolti chiedendo il risarcimento per la mancata diagnosi delle malformazioni fetali in sede ecografica.
Sia il Tribunale che la Corte d’Appello accolgono le domande di risarcimento del danno patrimoniale e non patrimoniale avanzate dai genitori; rigettano tuttavia la domanda di risarcimento dagli stessi proposta in nome e per conto del bimbo. Esaminiamo brevemente i motivi del rigetto.
Il precedente deciso dalle Sezioni Unite: il diritto alla vita di un bimbo con sindrome di Down
Il rigetto avviene sulla scorta di un noto precedente delle Sezioni Unite che, nel caso di un bimbo nato con sindrome di Down non tempestivamente diagnosticata, aveva escluso la domanda di risarcimento dei danni avanzata in nome e per conto del piccolo. Il tema è, naturalmente, quello dell’errore medico che non abbia evitato una nascita non desiderata a causa di malformazioni naturali del feto, che è diverso da quello dell’errore medico che tali malformazioni abbia direttamente causato.
Nel precedente sopra menzionato, le Sezioni Unite hanno considerato che il diritto al risarcimento fatto astrattamente valere dal bimbo con handicap sarebbe legato al suo stesso venire al mondo, perché si fonderebbe sul presupposto che, se la diagnosi fosse stata tempestiva, la madre avrebbe abortito ed il bimbo non sarebbe nato; pertanto, il danno fatto valere dal bimbo si configurerebbe come un danno per il fatto stesso di essere nato, contrapposto ad una presunta aspirazione di non-vita dello stesso (peraltro rimessa alla scelta di un soggetto diverso, ovverosia della madre).
Tuttavia, secondo la Suprema Corte, una tale aspirazione non sarebbe in tutta evidenza tutelabile come diritto sulla base del nostro ordinamento giuridico:
“E’ qui che la tesi ammissiva … incorre in una contraddizione insuperabile: dal momento che il secondo termine di paragone, nella comparazione tra due situazioni alternative, prima e dopo l’illecito, è la non vita, da interruzione della gravidanza. E la non vita non può essere un bene della vita”.
Il rigetto è dunque basato sulla base della considerazione che ciascuna persona ha diritto di essere tutelata nella sua condizione di essere vivente.
Le argomentazioni dei genitori nel caso in commento
La differenza del caso in commento rispetto a quello del bimbo con sindrome di Down considerato dal precedente delle Sezioni Unite, argomentano i genitori, deriva dal fatto che nel caso di specie la condizione di “non vita” sarebbe più favorevole rispetto alla condizione – definitivamente vegetativa – nella quale si trova il piccolo, al punto che la morte apparirebbe “oggettivamente preferibile rispetto alla vita irrimediabilmente compromessa”.
La vita resta sempre il valore principe da tutelare
Tuttavia, secondo la Corte, la differenza tra le due situazioni è solo apparente. Infatti, in tema di responsabilità medica da nascita indesiderata,
“il nato disabile non può agire per il risarcimento del danno, neppure sotto il profilo dell’interesse ad avere un ambiente familiare preparato ad accoglierlo, giacché l’ordinamento non riconosce “il diritto a non nascere se non sano”, né la vita del bambino può integrare il danno-conseguenza dell’illecito omissivo del medico”.
Lo stato vegetativo non è diminutivo della persona e dei suoi diritti
Tale principio, dice la Corte, trova applicazione anche qualora ricorra uno stato vegetativo permanente. Citando un altro suo precedente in materia, la Cassazione afferma che anche
“chi versa in stato vegetativo permanente è, a tutti gli effetti, persona in senso pieno, che deve essere rispettata e tutelata nei suoi diritti fondamentali, a partire dal diritto alla vita e dal diritto alle prestazioni sanitarie, a maggior ragione perché in condizioni di estrema debolezza e non in grado di provvedervi autonomamente.”
La tragicità estrema di tale stato patologico – che è parte costitutiva della biografia del malato e che nulla toglie alla sua dignità di essere umano –
“non giustifica in alcun modo un affievolimento delle cure e del sostegno solidale, che il Servizio Sanitario deve continuare ad offrire e che il malato, al pari di ogni altro appartenente al consorzio umano, ha diritto di pretendere fino al sopraggiungere della morte.”
La comunità civile deve dunque mettere a disposizione di chi ne ha bisogno e lo richiede tutte le migliori cure e i presidi che la scienza medica è in grado di apprestare per affrontare la lotta per restare in vita, a prescindere da quanto la vita sia precaria e da quanta speranza vi sia per recuperare le funzioni cognitive.
“Lo reclamano tanto l’idea di una universale uguaglianza tra gli esseri umani quanto l’altrettanto universale dovere di solidarietà nei confronti di coloro che, tra essi, sono i soggetti più fragili.”
Per concludere
Secondo la Cassazione, la considerazione secondo cui anche chi versi in stato vegetativo è persona in senso pieno porta a concludere che, anche rispetto a tale condizione, la “non vita” non possa essere qualificata bene della vita (tutelabile dall’ordinamento giuridico) e dunque ad escludere in radice la configurabilità di un danno ingiusto risarcibile, come affermato dalle Sezioni Unite.
Sulla base di quanto precede, la Corte ha dunque rigettato la domanda di risarcimento avanzata in nome e per conto del bimbo e le altre domande avanzate dalle varie parti.
Ferme restano le condanne della struttura ospedaliera e dei medici al risarcimento dei danni sofferti dai genitori per l’omessa diagnosi, ed in dettaglio la condanna al risarcimento del danno non patrimoniale (quantificato in Euro 300.000,00 a favore di ciascun genitore) e del danno patrimoniale derivante dalla necessità di apprestare al bimbo cure ed assistenza adeguate per l’intera durata della sua vita (quantificate in grado d’appello in Euro 1.620.000).
Ci aggiorniamo la prossima settimana con un altro, interessante argomento!
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LEGGI LE SENTENZE
Cassazione Civile, Sez. III, sentenza n. 24189 del 4 ottobre 2018
Cassazione Civile, Sezioni Unite, sentenza n. 25767 del 22 dicembre 2015