Suicidio del paziente e responsabilità della struttura per violazione degli obblighi di vigilanza

L’obbligo di vigilanza gravante sulla struttura è un obbligo di protezione che scaturisce naturalmente dal contratto col paziente e va adempiuto ad ogni modo, al fine di prevenire tutti i rischi potenzialmente incombenti sul degente, alla sola condizione che rientrino nello spettro della prevedibilità.

Oggi esaminiamo una recente sentenza del Tribunale Terni che ci propone alcuni spunti interessanti in tema di obblighi di protezione della struttura sanitaria e suicidio del paziente.

Il caso

Una signora, alla guida della sua auto ed in evidente stato di ebbrezza, urta violentemente contro un palo della luce. Trasportata nella notte presso il locale ospedale, la sua condizione viene refertata come “policontusa, sincope in abuso etilico, ipopotassemia, stato di agitazione psicomotoria“, con una prognosi di 30 giorni.

Sottoposta ad accertamento da parte del medico psichiatra, alla paziente vengono somministrati dei tranquillanti e la stessa viene ricoverata nel reparto di chirurgia posto al quarto piano dello stabile; dopo poche ore, alle ore 6.30 del mattino successivo la paziente si getta nel vuoto, suicidandosi.

La sorella della paziente agisce dunque in giudizio contro l’Azienda Ospedaliera chiedendo il risarcimento dei danni subiti per l’omessa assistenza prestata alla sorella e, in particolare, per non aver prestato tutte le cautele suggerite dalla “Raccomandazione” del Ministero della Salute n. 4/2008 per la prevenzione del suicidio in ospedale.

Vediamo qual è l’esito della valutazione del Tribunale di Terni.

Estensione degli obblighi di protezione della struttura sanitaria

Secondo parte attrice, anche in relazione alla possibile verificazione di un evento suicidario, sulla struttura grava nei confronti del paziente una responsabilità contrattuale, tale per cui ricorrerebbe una responsabilità della struttura sanitaria ogni qualvolta quest’ultima non avesse adottato tutte le cautele adeguate alle condizioni psico-fisiche del paziente che, nel caso in commento, erano tali da far presagire l’evento.

Tale impostazione non è nuova, ma richiama la giurisprudenza consolidata della Cassazione Civile sul tema degli obblighi di protezione a carico della struttura sanitaria, anche con riferimento alla prevenzione atti autolesionistici del paziente con disagio mentale.

In sintesi, secondo la Cassazione,

qualsiasi struttura sanitaria, nel momento stesso in cui accetti il ricovero d’un paziente, stipula un contratto dal quale discendono due obblighi: il primo è quello di apprestare al paziente le cure richieste dalla sua condizione; il secondo è quello di assicurare la protezione delle persone di menomata o mancante autotutela, per le quali detta protezione costituisce la parte essenziale della cura.

Ove un paziente ricoverato per disturbi mentali tenti il suicidio, riportando lesioni personali, la struttura sanitaria che l’aveva in cura risponde di tali lesioni, a prescindere dal carattere volontario od obbligatorio del trattamento sanitario al quale era sottoposto.

L’estensione ed il contenuto dell’obbligo di vigilanza, infatti, variano in funzione delle circostanze del caso concreto e si intensificano con l’accrescersi del rischio che il degente possa causare danni, o patirne. Tuttavia, l’obbligo di vigilanza e protezione del paziente, in quanto scaturente dall’accettazione del paziente, riguarda tutti i pazienti e prescinde dalla capacità di intendere e di volere di questi, né esige che il paziente sia sottoposto ad un trattamento sanitario obbligatorio.

Infatti, da un lato, anche una persona perfettamente capace di intendere e di volere può aver bisogno di vigilanza e protezione per evitare che si faccia del male (come nel caso di degente non autosufficiente); dall’altro lato, un malato di mente non può ritenersi tout court pericoloso per sé o per gli altri.

Da un altro punto di vista, sottolinea la Corte, non è pensabile che l’obbligo di vigilanza e protezione del malato sia dovuto solo al fine di prevenire alcuni rischi e non altri: così da ritenere, ad esempio, che esso vada adempiuto rispetto ai malati di mente al solo fine di evitare il suicidio e rispetto ai malati di corpo al solo fine di evitare cadute, e via dicendo.

“L’obbligo di vigilanza gravante sulla struttura è un “obbligo di protezione” che scaturisce naturalmente dal contratto col paziente e va adempiuto ad ogni modo, al fine di prevenire tutti i rischi potenzialmente incombenti sul degente, alla sola condizione che rientrino nello spettro della prevedibilità”

(Cass. Civ., Sez. III, n. 22331 del 22 ottobre 2014).

L’esito della valutazione tecnica svolta in corso di causa

Ed è proprio sulla base di quest’ultima considerazione che il Tribunale di Terni, nel caso oggi in commento, ha escluso la responsabilità della struttura sanitaria. Ma andiamo per ordine.

I consulenti medici incaricati dal Tribunale al fine di esaminare le misure adottate e valutare l’adeguatezza dell’approccio alla paziente hanno escluso, nel caso in commento, profili di censura nel comportamento dei sanitari coinvolti. Sottolineano in particolare i consulenti che:

– a fronte allo stato di agitazione e di ubriachezza della paziente, il medico del Pronto Soccorso aveva correttamente richiesto una consulenza psichiatrica;

a sua volta correttamente lo psichiatra, dato l’evidente stato di ubriachezza della paziente (documentato dal significativo tasso alcolemico risultante dalle analisi del sangue effettuate immediatamente all’accesso del Pronto Soccorso) e la conseguente impossibilità di costruire un colloquio strutturato con la stessa, le somministrava dei calmanti e la rinviava a successivo eventuale controllo superata la fase acuta, esprimendo un parere negativo circa la necessità di ricovero presso il Servizio Psichiatrico di Diagnosi e Cura.

In merito alla valutazione del rischio di suicidio, scrivono i consulenti di ufficio:

“Lo psichiatra deve valutare, in relazione a motivazioni cliniche giustificanti legate ad evidenze cliniche condivise e nel rispetto di buona pratica clinica, nell’attualità e concretezza del caso specifico e non attraverso astratte possibilità teoriche o ipotesi cliniche di ricerca o accumuli non contestualizzati, generici, diluiti nel tempo, di pretesi ed aspecifici fattori di rischio (soprattutto interpretati col senno del dopo) le variazioni del rischio suicidario. Queste variazioni di rischio devono essere documentate in cartella clinica ove vanno anche indicati i relativi, proporzionali, fattibili, controllabili e monitorabili provvedimenti cautelativi”.

 

La soluzione nel caso concreto

Secondo il Tribunale non sono dunque emersi, nel caso di specie,

elementi che potessero in alcun modo insinuare nei sanitari il dubbio che la paziente avrebbe messo in atto il gesto suicidario. La (…), infatti, non presentava elementi di disturbo formale del pensiero in atto, né una modificazione depressiva del tono dell’umore con ideazione suicidaria, né tantomeno la stessa riferiva o in alcun modo si poteva dedurre che avesse avuto, in passato, problematiche di natura psichiatrica; come risulta infatti dalle annotazioni in cartella clinica, già sopra riportate, la paziente risultava cosciente e orientata e riferiva specifiche informazioni in ordine alla sua persona e al suo indirizzo.”

A differenza di molti dei casi già oggetto di pronunce giurisprudenziali, in relazione a questa paziente non vi era alcuna storia pregressa, né alcuna evidenza di disturbo psichico attuale; secondo il Tribunale, a fronte dei molteplici fattori che la stessa Raccomandazione del Ministero richiede di valorizzare al fine di prevenire il rischio di suicidio nei pazienti, la sola circostanza dello stato di intossicazione alcolica della paziente non poteva ragionevolmente indurre i sanitari a orientarsi verso l’evento poi in concreto accaduto.  In sintesi, il rischio suicidario non era un evento che rientrava nello “spettro della prevedibilità”:

“tanto dall’azienda quanto da tutto il personale sanitario furono adottati gli accorgimenti richiesti dalle circostanze del caso al fine di prevenire il rischio di un evento che, secondo un giudizio ex ante, in alcun modo poteva essere previsto, e quindi evitato, dai sanitari stessi”.

La domanda di risarcimento della sorella è stata dunque rigettata, con una pesante condanna al rimborso delle spese di causa a suo carico.

Ci aggiorniamo la prossima settimana con un nuovo, interessante argomento!

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LEGGI I DOCUMENTI

Trib. Terni, 28 marzo 2020

Ministero della Salute Raccomandazione n. 4/2008 prevenzione del suicidio in ospedale

Cass. Civ., Sez. III, n. 22331 del 22 ottobre 2014