Prescrizione medica ed alleanza terapeutica tra sanitario e paziente

Una prescrizione medica può definirsi tale quando indica un preciso compito che viene definito a tutela del paziente, all’interno dell’alleanza terapeutica che deve caratterizzare il rapporto tra quest’ultimo ed il sanitario interpellato

 

Mi ricollego ad uno dei miei precedenti post per segnalarvi questa recente sentenza del Tribunale di Milano che definisce i confini tra mero svolgimento di prestazioni sanitarie e reale rapporto tra medico e paziente.

 

Il caso

Una paziente con gravidanza in corso si rivolge ad un ambulatorio ginecologico per i controlli di rito; la ginecologa rileva una erosione della cervice uterina ed indirizza la paziente al più vicino pronto soccorso al fine di eseguire urgentemente il pap test e gli altri accertamenti diagnostici necessari per valutare i sintomi.

Ricoverata in ospedale, alla paziente viene diagnosticata una minaccia di parto prematuro nonostante non ci fossero altri sintomi di tale minaccia; visitata nuovamente dalla prima ginecologa, viene refertata una lesione al collo uterino e la paziente viene inviata per ulteriore valutazione urgente di tale lesione. Ciononostante, alla visita successiva un altro professionista diagnostica alla paziente un polipo cervicale, senza necessità di ulteriori accertamenti.

La paziente viene poco dopo sottoposta a taglio cesareo ma, alla visita effettuata a sei mesi dal parto, la stessa viene sottoposta a colposcopia e biopsia urgente con referto di carcinoma squamoso cellulare: seguono tre cicli di chemioterapia e successivamente l’asportazione chirurgica della lesione neoplastica.

La paziente agisce dunque in giudizio contro i ginecologi e le strutture sanitarie interessate allegando che la ritardata diagnosi aveva comportato la necessità di sottoporsi ad isterectomia totale e salpingectomia totale in età fertile, l’aggravamento della neoplasia già esistente alla prima visita e la perdita di chances di sopravvivenza con l’aumento di rischio di recidiva.

 

La difesa dei medici

Tra i vari argomenti di difesa dedotti, i medici convenuti in giudizio hanno opposto che:

  • la condizione di gravidanza della paziente ed i tessuti colpiti dalla lesione non avrebbe comunque consentito un diverso approccio terapeutico, un intervento più tempestivo per il trattamento della neoplasia;
  • inoltre, il tumore che aveva colpito la signora aveva una evoluzione estremamente lenta, così che l’eventuale posticipo delle cure di alcuni mesi non sarebbe stato tale da creare significative ricadute sulla possibilità di sopravvivenza;
  • infine, la paziente aveva contribuito essa stessa, col suo comportamento, a ritardare la diagnosi del tumore e dunque a produrre il danno lamentato, prima non sottoponendosi al pap test e poi non presentandosi alla routinaria visita di controllo a 40 giorni dopo il parto; l’eventuale risarcimento dovuto avrebbe dunque dovuto essere decurtato, conformemente a quanto stabilito dall’Art. 1227 del Codice Civile.

 

Il parere della consulenza tecnica

Secondo il consulente tecnico d’ufficio nominato dal Tribunale va innanzitutto esclusa la responsabilità della prima ginecologa, che correttamente aveva evidenziato alla paziente la criticità della lesione e la necessità di procedere immediatamente ad ulteriori accertamenti.

Ciò che è stigmatizzabile nel caso in esame, piuttosto, è la condotta degli altri sanitari coinvolti, specialmente l’ultimo medico che ha visitato la paziente prima del parto.

Secondo il Giudice, un conto è prescrivere ad una paziente una visita routinaria di controllo post partum; altra cosa è prescriverle una visita e controlli deputati ad un approfondimento diagnostico per sospetta lesione neoplastica:

una disposizione intanto può assurgere al ruolo di “prescrizione medica” in quanto sia impartita in modo chiaro e, soprattutto, risulti definita nelle ragioni che la fondano, nei contenuti del trattamento e nei tempi in cui deve essere praticata; in altri termini, deve presentare linee di definizione tale da poter costituire un preciso “compito” posto a tutela del diritto alla salute del paziente all’interno dell’alleanza terapeutica che deve caratterizzare il rapporto di questi con il sanitario interpellato.

 

Il sanitario non può pretendere di addossare le proprie mancanze professionali al paziente

Secondo il Tribunale appaiono dunque prive di pregio le argomentazioni dedotte al fine di addossare alla paziente la responsabilità della tardiva diagnosi.

Al di là della condotta della paziente, infatti, l’ultimo specialista avrebbe dovuto – anche in presenza della sola diagnosi di lesione alla cervice – dare corso agli approfondimenti diagnostici congruenti con le indicazioni della specialista di riferimento ed allertare la paziente della situazione, prescrivendole una successiva visita di controllo presso di sé o quanto meno inserendola nei protocolli di indagine e controllo non appena si fosse svolto il parto. Un mero “consiglio” di procedere a futuri controlli, anche se dato, non sarebbe stato infatti qualificabile come prestazione medica:

Ciò che si vuole dire è che il medico non può affrontare un caso clinico prescindendo dall’anamnesi e dalle previsioni della possibile evoluzione, abbandonando il paziente a sé stesso e poi pretendere di evocare, a elisione parziale o totale della propria colpa, il concorso di colpa del danneggiato ex art. 1227 c.c. per non essersi lo stesso attivato autonomamente.

 

Per concludere

Alla luce dei principi sopra esposti, il Tribunale di Milano ha dunque rigettato le domande proposte dalla paziente contro la prima ginecologa, accogliendo invece quelle rivolte contro l’ultimo specialista che l’aveva visitata e la struttura ospedaliera di appartenenza. E’ stato tuttavia grandemente ridimensionato l’importo del risarcimento richiesto, ritenendo – conformemente all’opinione del consulente tecnico d’ufficio – che il danno sofferto dalla paziente si limitasse di fatto:

* ad un modesto danno biologico temporaneo (5 mesi, ovverosia il verosimile ritardo nell’inizio delle cure della neoplasia) ascrivibile all’erronea condotta sanitaria dell’ultimo specialista, e

* al danno morale identificabile nella sofferenza psicologica della paziente per la consapevolezza di maggior rischio di recidiva correlato alla ritardata diagnosi.

Entrambi maggiorati di rivalutazione, interessi e spese legali.

È stata invece esclusa sia la sofferenza di un maggior danno biologico permanente derivante dal ritardo dell’inizio delle cure – non essendo stato provato che, se si fosse intervenuti prima, i postumi riportati dalla paziente sarebbero stati di minore impatto – sia una perdita di chance di guarigione posto che, secondo il consulente, considerata la natura della neoplasia, tale perdita sarebbe stata del tutto esigua nel caso di specie.

 

In sintesi

Questa sentenza del Tribunale di Milano rappresenta un monito per ricordare lo speciale rapporto che lega il paziente al proprio medico e gli obblighi che esso impone al professionista, come esplicazione della posizione di garanzia che quest’ultimo riveste nei confronti dell’assistito.

 

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Tribunale di Milano, sentenza 21 giugno 2018

Art. 1227 del Codice Civile