Dissenso informato: che fare

L’espresso, libero e consapevole rifiuto del trattamento terapeutico manifestato dal paziente, che sia maggiorenne, cosciente e capace di intendere e di volere, è insuperabile, anche se l’omissione dell’intervento possa cagionare il pericolo di un aggravamento dello stato di salute del paziente ed anche la sua morte.

 

Questa settimana torniamo sul tema del consenso informato per esaminare una sentenza del Tribunale di Termini Imerese in materia di rifiuto della terapia trasfusionale da parte di paziente Testimone di Geova.

 

Il caso

Una signora con gravidanza in corso viene ricoverata con la diagnosi di minaccia d’aborto, iperemesi gravidica e squilibrio idro-elettrolitico.

Nel corso del ricovero viene ripristinato l’equilibrio idro-elettrolitico ed accertato – oltre al normale accrescimento del feto – che la paziente presenta delle turbe psichiche, verosimilmente correlate a problematiche organiche, comunque non necessitanti di terapia specifica.

Otto giorni dopo le prime dimissioni, la paziente viene nuovamente ricoverata per l’insorgenza di una sintomatologia caratterizzata da vomito e dolore addominale “a cintura”, dovuta a microlitiasi nella colecisti; a seguito del progressivo incremento degli enzimi pancreatici, epatici e della bilirubina, la paziente viene sottoposta ad intervento di colecistectomia per via laparoscopica.

L’intervento non evidenzia all’apparenza particolari difficoltà tecniche. Il giorno successivo, a seguito di insorgere di emorragia, la paziente torna in sala operatoria per una revisione chirurgica. Nel frattempo, un’ecografia ostetrica evidenziava una frequenza cardiaca del fetogravemente e persistentemente bradicardica”.

Il secondo intervento ha esito positivo ed anche il decorso post-operatorio è normale; tuttavia, il giorno successivo viene constatato che la gravidanza si è interrotta.

Rilevato un importante decremento dell’emoglobina, dell’ematocrito e delle emazie, il personale sanitario propone una trasfusione alla paziente la quale, Testimone di Geova, rifiuta il trattamento sanitario in ossequio al suo credo religioso.

Il giorno seguente, il personale illustra il caso al magistrato di turno presso la Procura della Repubblica del Tribunale e procede a trasfondere la paziente contro la sua volontà.

Il Tribunale di Termini Imerese viene dunque investito della decisione in merito all’imputazione del personale medico ed infermieristico intervenuto nei due interventi e nelle trasfusioni per i reati di procurato aborto e di violenza privata.

 

Nessuna responsabilità degli imputati per l’interruzione di gravidanza

Le risultanze processuali non hanno consentito di individuare alcun profilo di responsabilità dei sanitari in relazione all’esecuzione dei due interventi chirurgici e con riferimento all’intervenuta interruzione di gravidanza.

Infatti, il primo intervento viene considerato indicato e correttamente eseguito; quanto all’emorragia insorta il giorno successivo, viene esclusa l’imperizia dei sanitari nell’utilizzo degli strumenti chirurgici e la stessa viene piuttosto imputata alla particolare tipologia di strumento utilizzato (il trocar), che non permette di eliminare completamente il rischio di sanguinamento, essendo correlato all’utilizzo della tecnica laparoscopica.

Anche il secondo intervento, così come le rispettive fasi post-operatorie, vengono ritenute essere state gestite in modo corretto; viene inoltre escluso che l’interruzione di gravidanza sia correlabile all’intervento di colecistectomia ed alla moderata anemia successivamente insorta nella madre, ritenendosi piuttosto conseguenza di problematiche intrinseche alla gravidanza stessa.

Più problematica è invece la valutazione dell’emotrasfusione alla paziente.

 

Le modalità della trasfusione

Risulta dalla documentazione in atti che la paziente abbia consegnato all’Ospedale le sue DAT (direttive anticipate relative alle cure mediche), con le quali faceva espressamente presente di rifiutare le emotrasfusioni in quanto Testimone di Geova. Tale volontà viene ribadita più volte anche nelle annotazioni della cartella clinica e tramite la sottoscrizione del modulo di “rifiuto alla trasfusione di sangue”.

Ciononostante, il primario ordina comunque di procedere alla trasfusione, facendo immobilizzare la donna alla quale non resta che subire il trattamento.

 

Lo stato di necessità? Non è invocabile in caso di rifiuto espresso del paziente al trattamento

Nel caso di specie, la difesa dei sanitari coinvolti ha invocato la scriminante dello stato di necessità prevista dall’Art. 54 c.p., allegando che la trasfusione era giustificata dal fatto che la paziente era in pericolo di vita. Sul punto si veda anche il mio precedente post Consenso informato (parte terza): veicolare correttamente l’informazione al paziente.

Ma l’operatività della scriminante in questione è in realtà circoscritto al caso in cui:

  • il paziente versi in una situazione di incapacità di manifestazione del volere, ovverosia lo stesso non sia in grado, per le sue condizioni, di prestare il proprio consenso o dissenso (per esempio perché incosciente), e
  • sussista un quadro di pericolo di un danno grave alla persona imminente ed attuale.

Non opera invece nelle ipotesi di un espresso, chiaro, libero e valido dissenso al trattamento terapeutico manifestato dall’avente diritto.

Nel nostro ordinamento non esiste, infatti, un soccorso di necessità cosiddetto coattivo, che possa travalicare la contraria volontà dell’interessato, posto che l’urgente necessità terapeutica può rilevare solo in caso di paziente in caso di incoscienza o incapacità.

L’altra ipotesi in cui il sanitario può intervenire prescindendo dal consenso del paziente è quello del trattamento sanitario obbligatorio.

 

Il dissenso del paziente deve essere rispettato

La libertà di scelta del paziente e il suo consenso (opportunamente informato) al trattamento terapeutico è dunque il presupposto che giustifica il trattamento stesso. La possibilità di rifiuto del consenso da parte del paziente dunque altro non è che l’altra faccia del consenso:

“Il consenso informato, infatti, ha come contenuto concreto la facoltà non solo di scegliere tra le diverse possibilità di trattamento medico, ma anche eventualmente di rifiutare la terapia e di decidere consapevolmente di interromperla, in tutte le fasi della vita, anche quella terminale”.

Pertanto, la mancanza del consenso del malato o la sua invalidità per altre ragioni determina l’arbitrarietà del trattamento medico-chirurgico e la sua rilevanza penale, in quanto posto in violazione della sfera personale del soggetto e del suo diritto di decidere se permettere interventi estranei sul suo corpo e di scegliere se, come, dove e da chi farsi curare:

“Va dunque riconosciuto al paziente un vero e proprio diritto di non curarsi, anche se tale condotta lo esponga al rischio stesso della vita (al medico) non è attribuibile un generale “diritto di curare” a prescindere dalla volontà dell’ammalato”.

 

Il caso dei Testimoni di Geova

In tema di consenso informato nella trasfusione di sangue, non può non rilevarsi la peculiarità del caso del Testimone di Geova che, maggiorenne e pienamente capace di intendere e volere, neghi il consenso alla terapia trasfusionale. In tal caso, il medico è obbligato alla desistenza da tale terapia posto che, secondo il Tribunale, in base a principio personalistico,

“ogni individuo ha il diritto di scegliere tra la salvezza del corpo e la salvezza dell’anima”.

 

Ma attenzione in caso in cui ci sia in gioco la vita di un soggetto diverso

Diverso, precisa il Tribunale, è il caso in cui vi sia la necessità di salvare la vita di un terzo, per esempio il feto: in tal caso, risulta applicabile la scriminante dello stato di necessità, trattandosi in quel caso di salvare la vita a soggetto diverso dalla paziente che oppone il rifiuto.

 

Per concludere

Nel caso di specie, il Tribunale ha dunque

° escluso la rilevanza penale della condotta del personale sanitario con riferimento all’esecuzione dei due interventi chirurgici,

° ritenuto invece che l’esecuzione della emotrasfusione praticata alla paziente contro la sua volontà integrasse pienamente gli estremi del delitto di violenza privata, condannando di conseguenza il primario per tale reato.

 

In sintesi

Il caso in commento è paradigmatico del rifiuto del consenso al trattamento terapeutico ed impone al sanitario – previo un doveroso tentativo di dissuasione – il rispetto della scelta del paziente, cosciente e capace di intendere e di volere, di rifiutare la terapia e di decidere consapevolmente di interromperla. Diversamente, il rischio è quello di incorrere in un’imputazione penale.

 

Ci aggiorniamo la prossima settimana con un altro, interessante argomento!

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LEGGI I DOCUMENTI

Tribunale di Termini Imerese, sentenza n. 465 del 30 maggio 2018

Art. 610 c.p.