Omessa informativa al paziente su tecniche operatorie alternative: quale responsabilità del medico in caso di evento avverso grave?

Il paziente deve essere debitamente informato di quali sono le tecniche operatorie o i trattamenti medici alternativi rispetto a quelli proposti, con illustrazione dei relativi rischi e benefici, al fine di formare un effettivo consenso al riguardo; in mancanza, il paziente avrà diritto al risarcimento del danno eventualmente riportato in conseguenza del trattamento medico eseguito, purché sia provato che, ove correttamente informato, non si sarebbe sottoposto all’intervento o trattamento proposto.

Oggi torniamo sul tema del consenso informato del paziente con una recentissima sentenza della Cassazione Civile (n. 1936 del 23 gennaio 2023) che esamina il concreto contenuto che deve avere l’informativa al paziente e, in particolare, come si articola il dovere di informazione in merito alle alternative terapeutiche e quali sono le conseguenze della sua omissione.

 

Il caso

Un signore viene sottoposto ad un intervento di rimozione di un aneurisma all’aorta addominale. Dopo l’intervento si verifica una “fibrosi massiva aderenziale” con occlusione intestinale, che rende necessaria l’asportazione di un tratto dell’intestino e provoca al paziente gravi conseguenze permanenti (necessità di terapia parenterale continua domiciliare, presenza di una breccia addominale con esposizione intestinale e di una fistola enterica).

Il paziente agisce dunque in giudizio contro l’ospedale per ottenere il risarcimento del danno subito.

Il Tribunale accoglie le domande del paziente, liquidandogli un danno di Euro 700.000,00. La Corte d’Appello rigetta gli appelli proposti da entrambe le parti e conferma la sentenza di primo grado.

Vediamo qual è l’esito del ricorso in Cassazione.

 

Le risultanze della consulenza tecnica

Il Tribunale ha basato la propria decisione su quanto emerso dalla consulenza tecnica d’ufficio, che aveva accertato che le complicanze occorse nel caso concreto, benché rare e imprevedibili, erano dipese dalla tecnica operatoria applicata al trattamento dell’aneurisma (c.d. “OPEN”), considerata obsoleta. Se l’intervento fosse stato invece eseguito con tecnica endovascolare (c.d. “EVAR”), anziché con la tecnica effettivamente utilizzata, le complicanze, secondo il Tribunale, sarebbero state con certezza evitate.

La Corte d’Appello, nel confermare la sentenza di primo grado, ha ragionato come segue:

° l’aneurisma dell’ernia addominale poteva essere eliminato sia “dall’esterno” del vaso sanguigno, sostituendo il tessuto malato (tecnica “OPEN”)sia dall’interno del vaso sanguigno, inserendovi una endoprotesi tubolare che, espandendosi, rimpiazza la parete vascolare malata (tecnica endovascolare o “EVAR”);

° nel caso di specie il chirurgo aveva optato per la prima tecnica, senza informare il paziente dell’esistenza dell’altra;

° l’intervento ebbe conseguenze drammatiche per il paziente non perché malamente eseguito, ma perché in seguito ad esso si verificò, per cause naturali ed imprevedibili (cioè una patologia congenita ignorata dallo stesso paziente) una massiva fibrosi delle anse intestinali, che aderirono tra loro e provocarono un’occlusione intestinale;

° se l’intervento di rimozione dell’aneurisma fosse stato eseguito con tecnica “EVAR”, la fibrosi non si sarebbe verificata.

 

Il ricorso dell’Ospedale

Secondo le difese dell’ospedale, la condanna non è giustificata, perchè la colpa del chirurgo non è consistita né nella scelta della tecnica chirurgica di rimozione dell’aneurisma (che, ai tempi dell’intervento, appariva corretta), né nella sua imperita (cioè in violazione delle leges artis) esecuzione.

Secondo la decisione impugnata, infatti, l’esecuzione dell’intervento era avvenuta correttamente in base alla tecnica prescelta, ma si erano poi verificate delle complicanze “imprevedibili”, connesse ad una peculiare condizione personale del paziente, sconosciuta ai tempi dell’intervento.

La colpa del chirurgo era consistita unicamente nel non avere informato il paziente che esisteva un’altra tecnica operatoria che verosimilmente avrebbe evitato il danno.

Sennonché, secondo l’ospedale, il non avere informato il paziente di questa alternativa non poteva ritenersi “causa” del danno, perché la scelta e l’esecuzione della tecnica OPEN non fu di per sé una scelta caratterizzata da colpa. Infatti, anche se il paziente fosse stato informato dell’esistenza di una tecnica alternativa, non l’avrebbe scelta, dal momento che il chirurgo cui si era rivolto era un esperto della tecnica OPEN.

 

Cosa dicono le norme di legge e la giurisprudenza

Ricordiamo che, in base all’art. 1, co. 3 della legge 219 del 2017 (“Norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento”):

“Ogni persona ha il diritto di conoscere le proprie condizioni di salute e di essere informata in modo completo, aggiornato e a lei comprensibile riguardo alla diagnosi, alla prognosi, ai benefici e ai rischi degli accertamenti diagnostici e dei trattamenti sanitari indicati, nonché riguardo alle possibili alternative e alle conseguenze dell’eventuale rifiuto del trattamento sanitario e dell’accertamento diagnostico o della rinuncia ai medesimi.”

La violazione, da parte del medico, del dovere di informare il paziente in merito alle alternative terapeutiche disponibili nel caso concreto è dunque circostanza idonea, ricorrendo determinate circostanze, a giustificare l’eventuale risarcimento del danno nei suoi confronti.

Ma quali sono i presupposti del risarcimento? In base a giurisprudenza consolidata, i danni in concreto predicabili possono essere di diversa natura e, in estrema sintesi:

“a) un danno alla salute, quando sia ragionevole ritenere che il paziente – sul quale grava il relativo onere probatorio – se correttamente informato, avrebbe rifiutato di sottoporsi all’intervento (onde non subirne le conseguenze invalidanti);

b) un danno da lesione del diritto all’autodeterminazione, predicabile se, a causa del deficit informativo, il paziente abbia subito un pregiudizio, patrimoniale oppure non patrimoniale (e, in tale ultimo caso, di apprezzabile gravità), diverso dalla lesione del diritto alla salute”

(così Cass. Civ., n. 28985 dell’11 novembre 2019).

Sul tema, vedi anche il mio precedente postOmesso consenso informato e danno diritto di autodeterminazione terapeutica: quale prova a carico del paziente?”.

 

La decisione della Suprema Corte

Secondo la Cassazione, nel merito, l’impostazione data dall’Ospedale è corretta: infatti, la Corte d’appello ha mostrato di ritenere che l’unica condotta colposa ascrivibile al medico fosse l’omessa informazione del paziente sulle alternative terapeutiche.

Se l’omessa informazione fu l’unica condotta colposa tenuta dal medico, per condannare la struttura sanitaria al risarcimento del danno, la Corte d’appello avrebbe dovuto correttamente ricostruire il nesso casuale tra l’omessa informazione e l’evento di danno, ipotizzando cosa sarebbe accaduto se il medico avesse compiutamente informato il paziente della possibilità di scegliere tra tecnica “OPEN” e tecnica “EVAR”.

La Corte d’Appello ha tuttavia omesso tale giudizio, limitandosi ad affermare che la tecnica EVAR avrebbe evitato l’evento, e che di conseguenza la condotta omissiva del medico fu causa del danno.

In questo modo è mancato nella sentenza impugnata l’accertamento dello specifico nesso causale tra la violazione della regola cautelare e l’evento dannoso.

 

Per concludere

Sulla base di quanto precede, la sentenza impugnata è stata cassata e rinviata alla Corte d’Appello di provenienza, in diversa composizione, la quale dovrà accertare se ed in che misura se possa ritenersi plausibile, in base al criterio della preponderanza dell’evidenza, che una esaustiva informazione del paziente avrebbe indotto quest’ultimo a pretendere che l’intervento avvenisse con tecnica “EVAR” anziché “OPEN” e, sulla base di ciò, rivalutare il caso.

 

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LEGGI LA SENTENZA

Cass. Civ., Sez. III, n. 1936 del 23 gennaio 2023