Deve ritenersi che, nella richiesta di amministrazione di sostegno ed attraverso la scelta dell’amministratore da parte del beneficiario, sia possibile esprimere il rifiuto dell’interessato di determinate terapie; tale esigenza rappresenta, in relazione ad un quadro clinico chiaramente delineato, la proiezione, seppure in via anticipata, del diritto fondamentale della persona di non essere sottoposta a trattamenti terapeutici.
Uno dei momenti più delicati nella gestione quotidiana della professione medica è senz’altro rappresentato dalla possibilità che il paziente si trovi in uno stato di incapacità di esprimere il suo consenso (o dissenso) alle cure mediche.
Se è vero che l’art. 1 della legge n. 219 del 22.12.2017 (“Norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento”) riconosce il diritto di “ogni persona capace di agire… di rifiutare, in tutto o in parte… qualsiasi accertamento diagnostico o trattamento sanitario indicato dal medico per la sua patologia o singoli atti del trattamento stesso”, cosa succede se il paziente non è in grado di agire al momento della scelta?
Chi può esprimere il consenso informato per le cure all’incapace?
Ai sensi dell’art. 3 della Legge n. 219 del 22.12.2017, il consenso informato può essere rispettivamente espresso:
- nel caso di paziente legalmente interdetto, da parte del tutore, sentito ove possibile l’interdetto stesso;
- nel caso di paziente inabilitato, da parte del paziente stesso, e/o – laddove sia stato nominato, e la nomina preveda l’assistenza necessaria o la rappresentanza esclusiva dell’incapace in ambito sanitario – dall’amministratore di sostegno, che dovrà tenere conto della volontà del beneficiario.
Cosa succede in caso di rifiuto delle cure?
Nel caso in cui il paziente desideri, in previsione di un’eventuale futura incapacità di autodeterminarsi, esprimere le proprie volontà in materia di trattamenti sanitari, incluso il consenso o il rifiuto di accertamenti diagnostici, scelte terapeutiche e singoli trattamenti sanitari, lo può fare – dopo avere acquisito adeguate informazioni mediche sulle conseguenze delle sue scelte – attraverso le disposizioni anticipate di trattamento (DAT).
Tramite le DAT il paziente può altresì nominare una persona di sua fiducia, di seguito denominata «fiduciario», che faccia le sue veci e lo rappresenti nelle relazioni con il medico e con le strutture sanitarie.
In caso di mancanza di DAT, il consenso è dunque espresso dal rappresentante legale della persona interdetta, o dallo stesso inabilitato, oppure dall’amministratore di sostegno.
Ma cosa succede se il rappresentante legale della persona incapace oppure l’amministratore di sostegno, in assenza di DAT, rifiuti le cure proposte, e il medico ritenga invece che queste siano appropriate e necessarie?
In tal caso, la decisione dovrà essere necessariamente rimessa al giudice tutelare.
Per la soluzione adottata in un caso di volontà contraddittoria manifestata da parte dell’interessato, si veda il mio precedente post “Consenso informato (parte terza): veicolare correttamente l’informazione al paziente” e la decisione del Tribunale di Modena ivi citata.
Oggi trattiamo un caso particolare oggetto di una recente ordinanza della Corte di Cassazione (n. 12998 del 15.5.2019).
Il caso
Un signore è affetto da una grave patologia – malformazione artero-venosa (MAV) – che comporta emorragie continue, con conseguente instaurarsi di shock emorragico con rapida perdita della coscienza, compromissione delle funzioni vitali e gravi difficoltà nell’eloquio.
Per quanto il paziente sia consapevole del rischio di morte che corre in caso di shock emorragico violento, lo stesso è altresì un convinto testimone di Geova, ed è preoccupato di non poter manifestare il proprio dissenso alla terapia trasfusionale durante le sue crisi, in special modo se sedato.
La moglie del paziente – già designata in tale funzione dal consorte sin dal 2014 – presenta dunque ricorso al Giudice tutelare chiedendo di essere formalmente nominata quale amministratore di sostegno del marito e di essere autorizzata ad esprimere, in caso di impossibilità di quest’ultimo, il dissenso alla somministrazione di trasfusioni a base di emoderivati durante le crisi.
Il ricorso è presentato in un momento antecedente l’entrata in vigore della legge 219/2017, la quale dunque non è applicabile al caso in questione.
Il Giudice tutelare rigetta il ricorso, ritenendo il paziente “pienamente capace di intendere e volere”, e dunque non autorizzato a chiedere la nomina di un amministratore di sostegno; la Corte d’Appello, a sua volta, rigetta il reclamo, aggiungendo che il diritto di rifiutare determinate terapie sarebbe stato al di fuori dell’ambito d’applicazione dell’istituto dell’amministrazione di sostegno.
Il paziente investe dunque la Corte di Cassazione della decisione sul suo caso.
Quando è applicabile l’istituto dell’amministrazione di sostegno?
La Cassazione ribadisce innanzitutto che l’applicazione dell’istituto dell’amministrazione di sostegno presuppone che la persona sia priva, in tutto o in parte, di autonomia a causa di infermità mentale o per una qualsiasi altra «infermità» o «menomazione fisica», anche parziale o temporanea, che lo ponga nell’impossibilità di provvedere ai propri interessi.
“Il giudice – in siffatta ipotesi… – è tenuto, in ogni caso, a nominare un amministratore di sostegno poiché la discrezionalità attribuita dalla norma ha ad oggetto solo la scelta della misura più idonea (amministrazione di sostegno, inabilitazione, interdizione) e non anche la possibilità di non adottare alcuna misura, che comporterebbe la privazione, per il soggetto incapace, di ogni forma di protezione dei suoi interessi, ivi compresa quella meno invasiva”.
Secondo la Corte, soltanto la persona che si trovi in piena capacità psico-fisica non è legittimata a richiedere l’amministrazione di sostegno, in quanto l’intervento giudiziario non può essere che contestuale al manifestarsi dell’esigenza di protezione del soggetto.
Pertanto, anche nel caso di paziente usualmente capace d’intendere e volere, ma che sia soggetto a possibili black-out di coscienza a causa delle sue condizioni di salute, è possibile chiedere la nomina di un amministratore di sostegno.
Amministrazione di sostegno, scelte terapeutiche e principio di autodeterminazione del paziente
D’altra parte, secondo la Corte, l’art. 408 del codice civile, che ammette la designazione preventiva dell’amministratore di sostegno da parte dello stesso interessato in previsione della propria eventuale futura incapacità («l’amministratore di sostegno può essere designato dallo stesso interessato in previsione della propria eventuale futura incapacità») è
“espressione del principio di autodeterminazione della persona, in cui si realizza il valore fondamentale della dignità umana, ed attribuisce quindi rilievo al rapporto di fiducia interno fra il designante e la persona prescelta, che sarà chiamata ad esprimerne le intenzioni in modo vincolato, anche per quel che concerne il consenso alle cure sanitarie”.
La Cassazione precisa poi che, in tema di attività medico-sanitaria, il diritto alla autodeterminazione terapeutica del paziente non incontra alcun limite, anche qualora da esso possa conseguire il sacrificio del bene della vita:
“Di fronte al rifiuto della cura da parte del diretto interessato, c’è spazio – nel quadro dell'”alleanza terapeutica” che tiene uniti il malato ed il medico nella ricerca, insieme, di ciò che è bene rispettando i percorsi culturali di ciascuno – per una strategia della persuasione, perché il compito dell’ordinamento è anche quello di offrire il supporto della solidarietà concreta nelle situazioni di debolezza e di sofferenza; e c’è, prima ancora, il dovere di verificare che quel rifiuto sia informato, autentico ed attuale. Ma allorché il rifiuto abbia tali connotati non c’è possibilità di disattenderlo in nome di un dovere di curarsi come principio di ordine pubblico…
Né il rifiuto delle terapie medico-chirurgiche, anche quando conduce alla morte, può essere scambiato per un’ipotesi di eutanasia (omicidio del consenziente, art. 579 c.p., o aiuto al suicidio, art. 580 c.p.), ossia per un comportamento che intende abbreviare la vita, causando positivamente la morte, giacché tale rifiuto esprime piuttosto un atteggiamento di scelta, da parte del malato, che la malattia segua il suo corso naturale.”
Il consenso informato implica dunque la facoltà non solo di scegliere tra le diverse possibilità di trattamento medico, ma altresì di eventualmente rifiutare la terapia e di decidere consapevolmente di interromperla, in tutte le fasi della vita, anche in quella terminale, col necessario caveat che il paziente sia informato compiutamente, in modo completo ed attuale rispetto alle sue condizioni cliniche.
“Ciò assume connotati ancora più forti, degni di tutela e garanzia, laddove il rifiuto del trattamento sanitario rientri e sia connesso all’espressione di una fede religiosa il cui libero esercizio è sancito dall’art. 19 Cost.”.
La soluzione nel caso di specie
Alla luce di quanto sopra, la Cassazione ha affermato che
“deve ritenersi che – attraverso la scelta dell’amministratore da parte del beneficiario – sia possibile esprimere, nella richiesta di amministrazione di sostegno… proprio l’esigenza che questi esprima, in caso di impossibilità dell’interessato, il rifiuto di quest’ultimo di determinate terapie; tale esigenza rappresenta la proiezione del diritto fondamentale della persona di non essere sottoposto a trattamenti terapeutici, seppure in via anticipata, in ordine ad un quadro clinico chiaramente delineato.”
Alla luce di quanto sopra, la Corte ha cassato integralmente il provvedimento impugnato, rimettendo alla Corte d’Appello di Genova una nuova decisione sulla base dei principi sopra espressi.
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