Infezione della ferita dopo un intervento: come si distribuisce l’onere della prova?

Qualora sia altamente probabile l’origine nosocomiale dell’infezione, la struttura e/o il medico, per andare esenti da responsabilità, devono provare il corretto adempimento dei loro doveri e, sul piano generale, l’adozione di tutte le cautele prescritte dalle vigenti normative e dalle leges artis per scongiurare l’insorgenza di patologie infettive a carattere batterico, al fine della salvaguardia delle condizioni igieniche dei locali e della profilassi della strumentazione chirurgica adoperata; sul piano individuale, va provata la prestazione di corretta terapia profilattica pre e post-intervento ad opera del personale medico.

Oggi vi segnalo un’interessante sentenza della Corte di Cassazione di qualche mese fa (la n. 4864 del 23 febbraio 2021) che torna sul tema delle infezioni nosocomiali e del relativo onere della prova in giudizio.

Il caso

Una paziente si sottopone ad intervento di asportazione dell’ernia e neurolisi bilaterale presso una casa di cura privata; l’intervento però non riesce perfettamente e la paziente deve essere sottoposta ad ulteriore intervento di “neurolisi L5-S1 bilaterale e foraminectomia bilaterale di L5”.

A distanza di circa una settimana dal secondo intervento sopraggiunge però anche un’infezione della ferita, che rende necessario un ulteriore intervento di revisione chirurgica della ferita lombare infetta: viene accertata la positività della paziente al batterio Serratia Marcenscens.

In conseguenza di quanto precede la paziente riporta gravi danni (paraplegia della porzione inferiore del corpo ed incontinenza) e, unitamente al marito, instaura vari procedimenti penali (tutti archiviati) ed una causa civile contro il medico che l’aveva operata e la casa di cura di appartenenza per ottenere il risarcimento degli allegati danni.

Sia il Tribunale che la Corte d’Appello rigettano le domande della paziente ritenendole infondate e giudicando, in particolar modo, il danno da paralisi inesistente o di verosimile origine psicosomatica, e comunque non causalmente correlato all’operato dei sanitari; quanto al danno da infezione, le Corti di merito non ritengono raggiunta la prova – da parte della paziente – dell’origine nosocomiale dell’infezione, valorizzando la circostanza, sollevata dal chirurgo, che l’infezione poteva ben avere origine esterna, considerato che la paziente si era curata da sola, a casa, nei venti giorni successivi al secondo intervento.

Vediamo qual è l’esito della valutazione della Corte di Cassazione.

L’onere della prova nella responsabilità medica

La Suprema Corte ripercorre innanzitutto quelli che sono ormai considerati punti fermi in tema di onere della prova nell’inadempimento di obbligazioni di diligenza professionale sanitaria.

In questo tipo di obbligazioni, nelle quali il danno-evento risarcibile non consiste nella pura e semplice violazione delle “leges artis” da parte del sanitario, ma nella lesione del diritto alla salute del paziente,

“è onere del danneggiato provare, anche a mezzo di presunzioni, il nesso di causalità fra l’aggravamento della situazione patologica (o l’insorgenza di nuove patologie) e la condotta del sanitario, mentre è onere della parte debitrice dimostrare, ove il creditore abbia assolto il proprio onere probatorio, l’esatta esecuzione della prestazione o la causa imprevedibile ed inevitabile dell’impossibilità dell’esatta esecuzione”.

Nel campo della responsabilità medica, dunque, il ciclo causale “a monte” è quello relativo all’evento dannoso, e deve essere provato dal danneggiato (il paziente); invece, il secondo ciclo causale, “a valle”, è quello relativo alla impossibilità di adempiere, che deve essere provato dal danneggiante (la struttura sanitaria e/o il medico).

Di conseguenza, mentre il paziente deve provare il nesso di causalità fra l’insorgenza (o l’aggravamento) della patologia e la condotta del sanitario, la struttura sanitaria e/o il medico devono provare l’esatta esecuzione della prestazione o l’impossibilità dell’esatta esecuzione dovuta ad una causa imprevedibile ed inevitabile.

Il danno da infezione non fa eccezione alle regole che precedono. Sul punto, vedi anche il mio precedente postInfezioni nosocomiali, danno e nesso causale secondo la Cassazione”.

Le risultanze della consulenza tecnica d’ufficio ignorate dalla Corte d’Appello

Nel caso in commento, la consulenza tecnica d’ufficio aveva rilevato: «il quadro resosi evidente in sede peritale è compatibile in parte con il possibile esito di una procedura di asportazione di ernia discale esitata in fibrosi ma, in questo caso precipuo, è sicuramente determinato in modo preponderante e aggravato dalla complicanza infettiva […] La responsabilità dell’infezione, non è direttamente del chirurgo, ma con alta probabilità, deve essere posta a carico della casa di cura (…) in relazione a presumibile genesi nosocomiale.

Era dunque emerso che:

  • sotto il profilo di causalità materiale, il secondo intervento era stato necessitato dal primo, in quanto eseguito per recidiva dell’ernia originariamente operata, ed il terzo intervento, a sua volta, era stato necessitato dal secondo, trattandosi di revisione della ferita operatoria infetta;
  • il quadro patologico presentato dalla paziente era un possibile esito degli interventi eseguiti, seppure aggravato dall’infezione;
  • da ultimo, quanto proprio all’infezione, era risultata altamente probabile” la sua genesi nosocomiale, cioè il fatto che l’infezione fosse stata causata da germi di tipo ospedaliero.

Secondo la Suprema Corte, avendo la paziente ed il marito provato la correlazione tra il progressivo aggravamento delle condizioni di salute della prima e la condotta del sanitario, spettava alla struttura ed al medico di offrire la cd. “prova liberatoria”, ovverosia di provare l’esatto adempimento della prestazione, ovvero il fattore causale alternativo che era stato, da solo, idoneo a cagionare l’evento, nonché la sua imprevedibilità.

La prova liberatoria nelle cause relative ad infezioni nosocomiali

Con riferimento a quest’ultimo aspetto, la Cassazione ribadisce qual è  l’onere della prova a carico della struttura e/o del medico per andare esenti da responsabilità, come segue:

“1) sul piano generale, quello relativo all’adozione, ai fini della salvaguardia delle condizioni igieniche dei locali e della profilassi della strumentazione chirurgica eventualmente adoperata, di tutte le cautele prescritte dalle vigenti normative e dalle leges artis, onde scongiurare l’insorgenza appunto di patologie infettive a carattere batterico

2) sul piano individuale, quello relativo alla prestazione, ad opera del personale medico, del necessario e doveroso trattamento terapeutico valutando se, nel caso specifico, fosse stata praticata una corretta terapia profilattica pre e post-intervento.”

D’altra parte,

“la prova dell’adozione e dell’adeguato rispetto dei necessari standard di igiene e prevenzione non può, ragionevolmente, incombere sul paziente danneggiato con esclusione della casa di cura che lo ha dimesso.”

La soluzione nel caso concreto

Alla luce di quanto precede, la Cassazione ha giudicato erronea la sentenza della Corte d’Appello

  • per aver escluso – nonostante le risultanze della CTU – il danno da infezione nosocomiale
  • per aver altresì omesso di indagare se fosse stata eseguita – in conformità a normativa ed ai protocolli applicabili – una corretta terapia profilattica pre e post-intervento e, soprattutto,
  • per non aver considerato se la casa di cura e il chirurgo convenuti avessero fornito prova di quanto precede.

La sentenza di secondo grado è stata dunque cassata e la decisione rinviata alla Corte d’Appello, in diversa composizione, per un nuovo giudizio.

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LEGGI LA SENTENZA

Cassazione Civile, Sez. III, n. 4864 del 23 febbraio 2021