Negligente ed imprudente la condotta del medico che non trattiene in osservazione il collega con i sintomi di ictus

Oggi vi segnalo un’interessante ordinanza della Corte di Cassazione (Sez. III, n. 200 del 11 gennaio 2021) che concerne, tra gli altri, il delicato tema della responsabilità professionale del medico nel rapporto col paziente-collega.

 

Il caso

Un medico si reca presso il Pronto Soccorso di un ospedale, lamentando cefalea intensa ed ipertensione; i colleghi di guardia del reparto Cardiologia gli somministrano un antidolorifico ed un diuretico e, preso atto della rapida remissione dei sintomi, lo dimettono senza trattenerlo in osservazione, né l’esecuzione di ulteriori approfondimenti diagnostici.

Il giorno seguente, il medico/paziente viene ricoverato presso il Centro di Rianimazione e Terapia Intensiva di altro ospedale, ove viene eseguite una TAC che evidenzia la presenza di un ictus in corso, a causa del quale il paziente viene sottoposto ad intervento chirurgico d’urgenza.

In seguito, il medico instaura una causa nei confronti dell’Azienda USL di appartenenza del primo ospedale per il risarcimento dei danni riportati, lamentando l’erronea valutazione dei sintomi lamentati al primo accesso in ospedale e l’omessa/ritardata diagnosi di aneurisma cerebrale.

 

Il risultato dei primi due gradi di giudizio

Secondo la consulenza tecnica d’ufficio svolta nel corso del primo grado di giudizio:

– “l’orientamento dei sanitari dell’Ospedale fu che (il paziente) fosse rimasto vittima di una poussée ipertensiva accompagnata da cefalea intensa, risolta con terapia medica in pronto soccorso, che non avrebbe evidentemente comportato ulteriori conseguenze.

– i sanitari con la dovuta diligenza e con un’anamnesi corretta avrebbero dovuto sospettare la possibilità della presenza della grave patologia successivamente conclamatasi e attraverso l’effettuazione di una TAC orientare la diagnosi, la prognosi e la terapia”.

In altri termini, secondo i consulenti del Tribunale, i medici avrebbero colposamente sottovalutato i sintomi, ritenendo dirimente la loro remissione a seguito della terapia farmacologica. Una corretta valutazione degli stessi avrebbe invece dovuto indure i sanitari a disporre ulteriori accertamenti, tramite i quali l’emorragia subaracnoidea in atto sarebbe stata verosimilmente individuata e il paziente rapidamente sottoposto ad intervento chirurgico, scongiurando così l’emorragia intraparenchimale successivamente occorsa ed i danni neurologici dalla stessa derivati.

Sulla base di tale parere il Tribunale accoglie la domanda risarcitoria avanzata dal medico.

La Corte d’Appello capovolge il giudizio di primo grado, ritenendo invece che la rapida remissione dei sintomi sofferti e l’assenza di sintomi neurologici specifici a carico del paziente avrebbe di fatto tratto in inganno i medici, rendendo la diagnosi di particolare difficoltà tecnico-scientifica. La condotta dei medici di guardia del Reparto Cardiologia era dunque esente da colpa (imperizia) grave e non sanzionabile, conformemente a quanto disposto dall’art 2236 cc.

 

La linea di difesa della AUSL in giudizio… costituisce riconoscimento della condotta colposa dei medici

Secondo la Cassazione, la Corte d’Appello non ha adeguatamente motivato il discostamento dalla sentenza di primo grado e, in particolare, ha del tutto omesso di valutare un passaggio fondamentale e cioè che – sulla base del principio di non contestazione – fosse stata acquisita al processo la prova che, anche secondo i medici del primo Ospedale, sarebbe stato necessario trattenere il paziente in osservazione in ambiente ospedaliero.

Non risultava però provato che il paziente avesse rifiutato il ricovero: il referto del Pronto Soccorso non recava infatti alcuna anamnesi del paziente, né alcuna diagnosi, prognosi o consigli terapeutici, ma solo il trattamento sanitario farmacologico (antidolorifico e diuretico) somministrato in occasione dell’accesso.

Secondo la Corte, il fatto che la stessa difesa della AUSL abbia ribadito che i medici di guardia “solamente dopo aver più volte suggerito al (collega) di sottoporsi ad una consulenza neurologica e una TAC cranio, preso atto delle migliori condizioni di salute del paziente, decisero di rinviarlo a domicilio”, costituisce

“prova… attinente al fatto costitutivo principale della colpevolezza dei sanitari, sotto il profilo della negligenza ed imprudenza, perché dimostra, avendo gli stessi proposto il ricovero in conseguenza della sintomatologia in atto, che si erano resi conto o avevano quanto meno sospettato l’effettiva e ben più grave patologia di cui era affetto il (….)”.

 

Cosa manca per far ritenere corretta la condotta dei sanitari

Cosa manca, dunque, per far ritenere corretta la condotta dei sanitari in questione?

In caso di dubbi sulla diagnosi, i medici avrebbero dovuto trattenere in osservazione il paziente in ambiente ospedaliero per eseguire gli accertamenti (visita neurologica e TAC) necessari per eliminare il dubbio di occorrenza di un aneurisma (o comunque formalizzare il loro consiglio in tal senso), indipendentemente dal fatto che il paziente fosse a sua volta un collega e al di là del fatto che quest’ultimo ritenesse eccessive e non necessarie le suddette misure.

Mi permetto di aggiungere che i medici avrebbero anche dovuto lasciare una traccia documentale del loro operato, correttamente e compiutamente registrando:

l’anamnesi completa del paziente, la diagnosi e la prognosi;

– le informazioni (pur sinteticamente) fornite al paziente in merito agli accertamenti diagnostici ritenuti necessari ed ai rischi in caso di eventuale loro mancata esecuzione;

– l’eventuale rifiuto (informato) opposto dal paziente in merito alle attività diagnostiche propostegli.

In merito all’importanza di un’accurata tenuta e conservazione della documentazione clinica del paziente ed alla sua essenzialità per un’adeguata difesa in giudizio, si veda anche il mio precedente post “Il contenzioso in medicina: quali mezzi per difendersi in caso di contestazione?”; sul tema del dissenso alle cure, si veda anche “Dissenso informato: che fare”. 

 

Per concludere

Alla luce di quanto precede, la Corte di Cassazione ha accolto l’impugnazione del paziente, cassando la sentenza e rinviando alla Corte d’Appello di L’Aquila per un nuovo giudizio sulla vicenda.

 

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LEGGI L’ORDINANZA

Cass. Civ., Sez. III, n. 200 del 11 gennaio 2021