Interventi dermatologici con finalità terapeutica e danni da omessa informazione al paziente

La violazione, da parte del medico, del dovere d’informare il paziente può causare a quest’ultimo due diversi ordini di danni: un danno alla salute, sussistente quando sia ragionevole ritenere che il paziente, se correttamente informato, avrebbe evitato di sottoporsi all’intervento e di subirne le conseguenze, nonché un danno da lesione del diritto all’autodeterminazione in sé considerato, il quale sussiste quando, a causa del deficit informativo, il paziente abbia subito un pregiudizio, patrimoniale oppure non patrimoniale di apprezzabile gravità, diverso dalla lesione alla salute.

Trovate qui di seguito il mio ultimo articolo per la sezione “Aspetti Legali in Dermatologia” del sito Internet dell’ISPLAD – International-Italian Society of Plastic – Regenerative and Oncologic Dermatology, di interesse generale per professionisti sanitari.

Buona lettura!

Oggi vi segnalo una recente sentenza del Tribunale di Ravenna (n, 261 del 2 aprile 2020) concernente il tema dell’informazione al paziente per gli interventi dermatologici aventi finalità prettamente terapeutica.

Il caso

Una signora si rivolge ad un dermatologo a causa di una lesione cutanea al viso, poi diagnosticata come carcinoma basocellulare della palpebra inferiore sinistra.

D’accordo con la paziente, il medico procede all’intervento di rimozione in due tempi: rimosso in un primo tempo il vasto carcinoma, viene poi programmato l’intervento per la riparazione della ferita. La cute per l’innesto epidermico viene prelevata dal fianco della paziente, posto il fermo rifiuto della stessa ad un espianto di cute da viso o collo.

L’intervento, pur rimossa con successo la neoplasia, non ha l’esito esteticamente sperato, e la paziente chiama in causa l’AUSL locale chiedendo il risarcimento dei danni sofferti in conseguenza all’esito cicatriziale non previsto, ad ectropion della palpebra inferiore ed epifora (stravaso lacrimale).

Le contestazioni della paziente

In causa, la paziente in sintesi lamenta:

  • il mancato impiego delle regole tecniche in materia di chirurgia plastica, necessarie per il buon esito dell’intervento, da parte del dermatologo
  • di non essere stata informata sin dall’inizio della necessità di un espianto della cute dal volto o dal collo per la buona riuscita della riparazione della lesione causata dalla rimozione chirurgica della neoplasia e, dunque, di non essere stata messa nella condizione di poter accettare o rifiutare, dal principio, l’intero percorso terapeutico.

 

Come si sviluppa l’obbligo del medico di informare il paziente

Il Tribunale, concentrandosi in particolare sul secondo addebito, conferma l’impostazione consolidata della giurisprudenza in tema di contenuto degli obblighi informativi a carico del medico, secondo cui il medico ha

“l’obbligo (…) di fornire al paziente, in modo completo ed esaustivo, tutte le informazioni scientificamente possibili riguardanti le terapie che intende praticare o l’intervento chirurgico che intende eseguire, con le relative modalità e col solo limite dei rischi imprevedibili, ovvero degli esiti anomali, al limite del fortuito”.

All’obbligo del medico di informare il paziente corrisponde specularmente il diritto del paziente di essere compiutamente informato al fine di autodeterminarsi, cioè al fine di formare autonomamente e manifestare il proprio consenso (o dissenso) alla prestazione sanitaria proposta dal medico.

Il diritto di autodeterminazione del paziente costituisce un autonomo diritto della persona, distinto dal diritto alla salute (ovverosia dal diritto del paziente alla propria integrità psicofisica), con la conseguenza che la violazione del diritto all’autodeterminazione può aver luogo indipendentemente sia dalla correttezza della prestazione sanitaria, sia dalla sofferenza di un danno alla salute da parte del paziente.

I danni conseguenti alla violazione dell’obbligo informativo

La violazione, da parte del medico, del dovere d’informare il paziente può causare a quest’ultimo due diversi ordini di danni:

“un danno alla salute, sussistente quando sia ragionevole ritenere che il paziente, su cui grava il relativo onere probatorio, se correttamente informato, avrebbe evitato di sottoporsi all’intervento e di subirne le conseguenze invalidanti, nonché

un danno da lesione del diritto all’autodeterminazione in sé stesso, il quale sussiste quando, a causa del deficit informativo, il paziente abbia subito un pregiudizio, patrimoniale oppure non patrimoniale (e, in tale ultimo caso, di apprezzabile gravità), diverso dalla lesione”.

Nel caso in questione, la paziente ha chiesto all’AUSL tanto il risarcimento del danno alla salute (danno biologico per l’esito cicatriziale non previsto, ectropion della palpebra inferiore sinistra ed epifora), quanto il danno da violazione del diritto all’autodeterminazione, il danno morale soggettivo per la lesione ed i danni patrimoniali riportati (spese conseguenti al cattivo esito dell’intervento).

Ma come funziona, in pratica, la prova del danno da violazione del diritto all’informazione?

A fronte di una contestazione del paziente di omessa (o inidonea) informazione da parte del medico, tale da incidere sulla formazione del consenso del paziente al trattamento terapeutico, sarà il medico (e/o la struttura sanitaria di appartenenza) a dover dimostrare di aver adeguatamente informato il paziente.

Per converso,

“il paziente che agisca nei confronti della struttura sanitaria… per ottenere il risarcimento dei danni conseguenti alla lesione del consenso informato ha… l’onere di… allegare e provare i danni (alla salute e/o all’autodeterminazione) fatti valere ed il nesso causale tra la violazione e tali danni, soprattutto con riferimento alla lesione al diritto alla salute”.

Per quanto concerne la prova del danno alla salute, la consulenza tecnica effettuata nel caso in commento ha accertato che la condotta tenuta dal dermatologo è stata corretta: corretta la tecnica chirurgica adottata per eliminare la neoplasia, così come l’esecuzione dell’innesto cutaneo e la cura prescritta alla paziente a fronte della retrazione della cicatrice. Secondo il consulente, le conseguenze patite dalla paziente non sono dipese dalla sede dell’espianto della cute reinnestata sulla palpebra, ma da un fenomeno fisiologico, o non prevenibile, dipendente da fattori locali e genetici, oltre che dal decorso post-operatorio.

Alla luce della consulenza tecnica, l’informazione che la paziente ha lamentato di non aver ricevuto in occasione del primo intervento è stata

“irrilevante rispetto alla sua autodeterminazione a sottoporsi o meno all’intervento e rispetto al danno alla salute lamentato in questo giudizio.”

Mancando il collegamento causale tra la mancanza di informazione (in merito al sito dell’espianto cutaneo) ed il danno alla salute riportato (retrazione della cicatrice e quant’altro) la domanda di risarcimento del danno alla salute avanzata dalla paziente è stata rigettata.

Alla stessa conclusione si sarebbe arrivati – secondo il Giudice – anche considerando la situazione da un diverso punto di vista, ovverosia valutando il fatto che la paziente non aveva dedotto alcuna circostanza da cui potersi desumere che, se correttamente informata, avrebbe rifiutato il percorso terapeutico propostole, anche tenuto conto della tipologia di trattamento e della sua necessità.

Pertanto, anche volendo assumere che il medico avesse, in concreto, violato l’obbligo di acquisire un consenso pienamente informato della paziente sull’intervento, la domanda di risarcimento del danno alla salute formulata da quest’ultima non avrebbe potuto essere accolta.

Diversa è la prova del danno al diritto di autodeterminazione

Per quanto concerne la violazione del diritto all’autodeterminazione allegata dalla paziente, l’inadempimento dell’obbligo di informazione da parte del medico può assumere rilievo a fini risarcitori a condizione che

“sia allegata e provata, da parte (del paziente), anche per presunzioni, l’esistenza di pregiudizi non patrimoniali derivanti dalla violazione del diritto fondamentale all’autodeterminazione in sé considerato, sempre che essi superino la soglia minima di tollerabilità imposta dai doveri di solidarietà sociale e non siano futili, ovvero consistenti in meri disagi o fastidi”.

Ma in cosa può consistere il danno al diritto di autodeterminazione del paziente? La giurisprudenza ha individuato svariate ipotesi concrete, per esempio:

  • la sofferenza psicologica derivata da conseguenze del tutto inaspettate dell’atto terapeutico, non prospettate al paziente e per questo da quest’ultimo più difficilmente accettate (per esempio in caso di interventi demolitori)
  • una prestazione terapeutica salva la vita al paziente, ma al prezzo della sofferenza di un dolore fisico acuto o cronico che il paziente avrebbe preferito scegliere di non sopportare;
  • una trasfusione salvavita effettuata su Testimone di Geova, con conseguente sofferenza psicologica per il contrasto del trattamento con la fede religiosa del paziente; e così via.

Nel caso in commento, la paziente non ha dedotto elementi idonei a costituire prova del danno al diritto all’autodeterminazione subito. Il Tribunale ha dunque rigettato le domande della paziente, altresì condannandola al rimborso delle spese legali dell’AUSL.

Il caso di oggi riporta la nostra attenzione sull’importanza della correttezza e completezza dell’informazione da dare al paziente per evitare di incorrere in contrasti legali spiacevoli (e dispendiosi) da ambo i lati.

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Tribunale di Ravenna, n, 261 del 2 aprile 2020

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