Rinvio senza preavviso della seduta di chemioterapia: nessun danno risarcibile per il paziente se il nuovo appuntamento è fissato entro pochi giorni

Il mero rinvio dell’appuntamento per la somministrazione di una terapia chemioterapica non determina il venire in essere di un diritto del paziente al risarcimento del danno per il ritardo, quando la data del nuovo appuntamento sia fissata a pochi giorni di distanza ed il paziente non abbia riportato dal rinvio un danno oggettivo, bensì un mero “fastidio”.

Oggi vi segnalo una recente sentenza della Corte di Cassazione (n. 24514 del 1.10.2019) che ha escluso il diritto di un paziente al risarcimento degli asseriti danni derivati dal rinvio senza preavviso di una seduta di chemioterapia.

Il caso

Un signore si reca in ospedale al fine di sottoporsi ad un ciclo programmato di chemioterapia da eseguirsi mediante catetere vescicale; giunto sul posto, gli viene riferito che l’intervento non potrà essere eseguito per mancanza di personale infermieristico di sesso maschile, e che sarebbe stato fissato un nuovo appuntamento non appena l’intervento fosse divenuto possibile.

Adirato per l’accaduto, il paziente si rivolge alla polizia municipale e, tornato in ospedale accompagnato da una pattuglia, ottiene la fissazione di un nuovo appuntamento grazie all’intervento delle forze dell’ordine.

Il paziente agisce dunque in giudizio per ottenere dall’ASL il risarcimento del danno che allega di aver riportato per l’omessa sottoposizione al trattamento chemioterapico nei tempi stabiliti.

L’esito del giudizio di primo grado

Il Giudice di Pace, chiamato a giudicare la vicenda in primo grado, ha definito la questione sulla base della cosiddetta “questione più liquida”, rigettando la domanda del paziente perché – al di là di qualsiasi valutazione nel merito degli altri presupposti e, in particolare, sulla colpevolezza o meno della condotta dei sanitari – non ha ritenuto sussistere alcun danno risarcibile nel caso in commento. Il Giudice di Pace ha infatti ritenuto che quello patito dal paziente fosse stato un mero “fastidio”, insuscettibile di generare un diritto al risarcimento.

Il Tribunale conferma: nessuna colpa in capo al personale dell’ASL

Anche il Tribunale, chiamato a decidere sull’impugnazione presentata dal paziente, conferma il rigetto delle domande, ma oltrepassa il perimetro della decisione di primo grado ed esclude che la condotta tenuta dal personale sanitario della ASL possa configurare un’ipotesi di colpa civile.

Nessun onere in capo all’ASL di provare la mancanza di colpa

Uno dei motivi del ricorso in Cassazione presentato dal paziente si basa sulla considerazione che, essendo la ASL legata al paziente da un rapporto di tipo contrattuale, sarebbe stato onere dell’azienda sanitaria stessa di dimostrare l’assenza di propria colpa, prova che non è stata dedotta in giudizio.

Ma anche secondo la Cassazione,

“non essendoci un danno risarcibile, è superfluo discorrere sull’esistenza o inesistenza di una condotta colposa del personale sanitario”.

D’altra parte,

“lo stabilire se una certa condotta illecita abbia causato una lesione della salute; se tale lesione sia stata o non sia stata grave; se abbia o non abbia avuto conseguenze futili; sono altrettanti apprezzamenti di fatto riservati al giudice di merito”.

Sulla base di queste considerazioni, la Corte ha rigettato anche il motivo di ricorso basato sull’allegata violazione degli articoli 2059 del codice civile (secondo il quale “Il danno non patrimoniale deve essere risarcito solo nei casi determinati dalla legge”), 32 della Costituzione (“La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti. Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge”) e 3 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti umani (“Nessuno può essere sottoposto a tortura né a pene o trattamenti inumani o degradanti”).

Per concludere

Sulla base della decisione in commento, insomma, il mero ritardo nell’adempimento della prestazione medica da parte di una struttura sanitaria non è necessariamente fonte di danno risarcibile; per essere tale, dovrà essere provata dal paziente la sofferenza di un danno oggettivo, che vada al di là del mero fastidio o inconveniente temporaneo.

La Suprema Corte ha dunque rigettato il ricorso del paziente, condannandolo anche a rifondere alla ASL ed al suo assicuratore le spese del giudizio e a versare alla Cassa Ammende un’ulteriore somma pari all’importo del contributo unificato.

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LEGGI LA SENTENZA

Cassazione Civile, Sez. III, n. 24514 del 1.10.2019