Dovere anamnestico del medico ed omissioni informative del paziente

Il paziente non può avere responsabilità per l’eventuale carenza di informazioni fornite in sede anamnestica, salvo che sia incorso in omissioni a fronte di specifiche richieste del medico. Non rientra infatti tra gli obblighi del paziente né avere specifiche cognizioni di scienza medica, né sopperire ad accertate mancanze investigative del professionista.

Oggi torniamo sul tema del perimetro degli obblighi anamnestici del medico ed esaminiamo un caso di omessa diagnosi di talassemia major su cui si è pronunciata la Cassazione Civile.

Il caso

Una signora si rivolge ad un ginecologo per accertarsi – in vista di una gravidanza – di non essere portatrice sana di talassemia, essendone già portatore sano il marito e rischiando, in caso di diagnosi positiva, di concepire un figlio malato di talassemia major, patologia altamente invalidante.

Il ginecologo prescrive alla paziente gli esami ematici richiesti e la indirizza da una specialista ematologa per una consulenza; quest’ultima, a causa di errore diagnostico, attribuisce i valori riscontrati negli esami della paziente a carenza di ferro ed esclude la talassemia. Sennonché, in seguito, la signora dà alla luce due gemelle affette di talassemia major, e scopre così di essere a sua volta portatrice sana della malattia.

La paziente ed il marito iniziano dunque una causa contro il ginecologo, l’ematologa e la AUSL di riferimento al fine di ottenere il risarcimento dei danni subiti a causa dell’omessa diagnosi.

Il Tribunale accerta la colpa medica dell’ematologa, ma rigetta le domande degli attori per mancanza di prova della volontà di abortire della paziente.

La Corte d’Appello riforma la decisione di primo grado statuendo:

  • la responsabilità prevalente (nella misura del 70%) dell’ematologa, per non aver fatto le verifiche richieste dal caso e per non aver segnalato alcunché al ginecologo;
  • la responsabilità concorrente (nella misura del 30%) del ginecologo, per aver mancato di esaminare autonomamente i valori anomali segnalati dagli esami della paziente, per non aver chiesto chiarimenti alla collega ematologa in relazione alla riferita carenza di ferro della paziente e per non aver domandato a quest’ultima notizie in merito ad eventuali affezioni nel ramo collaterale della sua famiglia (poi effettivamente risultate rilevanti con riguardo alla sorella ed ai suoi figli);
  • un concorso di colpa (nella misura del 20%) della paziente e del marito i quali, pur essendo a conoscenza sia della natura genetica della malattia oggetto d’investigazione (la talassemia) sia della patologia sofferta dalla sorella della paziente e dai suoi figli (la microcitemia), non ne avevano parlato con i medici in sede d’anamnesi.

Vediamo qual è l’esito del ricorso in Cassazione.

Il motivo principale d’impugnazione della coppia avanti alla Corte di Cassazione

La paziente ed il marito, nel loro ricorso, contestano che la Corte di appello avrebbe errato nell’imputare loro un concorso di colpa, posto che l’anamnesi rientra nei doveri del medico e l’eventuale mancata “integrazione spontanea” delle informazioni anamnestiche da parte della paziente non avrebbe avuto alcun nesso causale con i pregiudizi subiti dalla coppia.

La Suprema Corte accoglie il motivo di ricorso affermando che

“il paziente … eccetto omissioni a fronte di specifiche richieste del medico in sede di anamnesi, non può ritenersi avere responsabilità per le carenze di quella, non rientrando tra i propri obblighi né avere specifiche cognizioni di scienza medica (e così, nel caso, riguardo alla microcitemia), né sopperire ad accertate mancanze investigative del professionista, tanto più quando allo stesso ci si rivolga proprio per la specifica ragione in parola, ossia per accertarsi di non incorrere nella trasmissione, da portatore sano, della patologia altamente invalidante venuta all’attenzione”.

La pronuncia conferma l’orientamento della sentenza-cardine della Corte di Cassazione in materia, la n. 20904 del 13.9.2013 – sulla quale vedi il mio precedente post “La reticenza del paziente in sede anamnestica costituisce un limite al dovere del sanitario di accertare le sue condizioni psico-fisiche?” – e secondo cui

“Una volta iniziato il rapporto curativo, la ricerca della situazione effettivamente esistente in capo al paziente, almeno per quanto attiene alle evidenze del suo stato psico-fisico, è affidata interamente al sanitario, che deve condurla in piena autonomia anche rispetto alle dichiarazioni rese dal paziente in sede di anamnesi, integrando un diverso operare una palese mancanza di diligenza”.

In applicazione di tale principio, la Corte ha dunque escluso un possibile concorso di colpa della coppia nella causazione del fatto lesivo, confermando la sola responsabilità del ginecologo e dell’ematologa al riguardo.

In cosa consiste il danno da lesione del diritto all’autodeterminazione in conseguenza dell’errore diagnostico?

Un altro aspetto interessante della sentenza in commento è rappresentato dalla precisazione di come l’erronea diagnosi abbia causato, nel caso di specie, una lesione del diritto all’autodeterminazione dei due genitori, incidendo sulla loro  consapevolezza e libertà di scelta.

Premesso che l’astratta lesione del diritto all’autodeterminazione individuale non implica la risarcibilità automatica, “in re ipsa”, di alcun danno, ma che il danno subito andrà provato dall’interessato (sul punto, vedi anche il mio precedente post “Omesso consenso informato e danno al diritto di autodeterminazione terapeutica: quale prova a carico del paziente?”), tale danno si declinerà in modo differente a seconda che, in giudizio, sia provato che, in caso di adeguata informazione in merito alla patologia sofferta dal nascituro, la scelta della gestante avrebbe propeso – o meno – per l’aborto.

Qualora la scelta sia per la continuazione della gravidanza, il pregiudizio risarcibile consiste nella violazione del diritto della paziente alla “valutazione dei rischi cui intende esporsi”, e dunque a prepararsi alla scelta che, rinunciando all’aborto, avrebbe comunque fatto. La lesione del diritto all’autodeterminazione – risarcibile in via equitativa – è dunque costituito

“dalla sofferente quanto inaspettata scoperta della malattia e dall’assenza di consapevole preparazione all’alterazione della vita quotidiana seguita all’errore diagnostico”.

Si tratta di una fattispecie diversa dalla sofferenza del genitore per il radicale rifiuto del figlio disabile, oppure per l’alterazione patologica del figlio in sé considerata, che viene valorizzata dalla giurisprudenza qualora sia dedotta la prova della volontà abortiva della coppia.

Ci aggiorniamo la prossima settimana con un nuovo, interessante argomento!

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LEGGI L’ORDINANZA

Cass. Civ., Sez. III, n. 26426 del 20 novembre 2020