Infezioni nosocomiali, prova liberatoria e ripartizione delle responsabilità tra medici e struttura

In mancanza di prova in ordine alla effettiva sterilità dei locali in cui fu eseguito l’intervento e della strumentazione utilizzata, così come in ordine ai protocolli adottati per la prevenzione di infezioni ospedaliere ed alle verifiche e precauzioni adottate a tal fine, sia la struttura sia i medici vanno considerati responsabili per l’infezione nosocomiale contratta dal paziente.

Questa settimana vi segnalo un’interessante sentenza del Tribunale di Milano (n. 1007 del 5 febbraio 2020) che presenta molti spunti d’interesse in tema di infezioni nosocomiali, prova liberatoria in giudizio e ripartizione della responsabilità tra medici e struttura.

Il caso

Un paziente si rivolge a due medici presso una struttura privata per procedere ad un ritocco chirurgico ai glutei.

Qualche giorno dopo l’intervento di “gluteoplastica con protesi in regime ambulatoriale” viene rilevata una diastasi della ferita chirurgica, che viene suturata; a tre settimane dall’intervento viene accertata deiscenza della ferita chirurgica ed accertata la sofferenza di un’infezione da Escherichia Coli. Seguono medicazioni ed interventi di espianto e reimpianto della stessa protesi, sempre ad opera degli stessi sanitari; infine – presso altra struttura – si procede all’espianto definitivo della protesi del gluteo per accertata “infezione inveterata tasca periprotesica glutea sinistra con esposizione protesica”.

Il paziente conviene dunque in giudizio i due medici e la prima struttura al fine di ottenere il risarcimento dei danni subiti, contestando tra l’altro la negligente gestione dei protocolli concernenti la prevenzione e la gestione delle infezioni nosocomiali (dalla mancanza di sterilità dell’ambiente in cui era stato eseguito l’intervento, alla mancata profilassi antibiotica ed applicazione di drenaggi, al riposizionamento delle medesime protesi ad infezione in corso ed all’inadeguatezza delle cure prestate dopo la comparsa dell’infezione).

Le difese dei professionisti medici e della struttura

Vediamo quali sono le difese addotte in giudizio dai sanitari:

  • uno dei due medici si difende allegando la sua funzione secondaria (di mera strumentista) nell’intervento di gluteoplastica e l’assenza di sua capacità decisionale in merito all’operazione, che era stata integralmente gestita dal collega primo operatore;
  • il primo operatore, dal canto suo, contesta che le problematiche lamentate dal paziente sarebbero qualificabili come complicanze post-operatorie, rientranti nelle prevedibili conseguenze dell’intervento, di cui il paziente era stato preventivamente informato e che l’infezione andava verosimilmente ricollegata, piuttosto, alla mancata osservanza delle prescrizioni mediche post-operatorie da parte del paziente;
  • la clinica, infine, contesta la sua estraneità al rapporto tra i medici ed il paziente, sulla base dell’assenza di qualsiasi rapporto contrattuale col paziente e della considerazione che la struttura aveva semplicemente messo a disposizione il proprio ambulatorio ai due medici.

Confermati i principi in materia di responsabilità per lavoro d’équipe

Per quanti concerne la posizione dei due medici, il Tribunale, accertata l’esistenza di un rapporto contrattuale tra gli stessi ed il paziente, ribadisce i principi consolidati in tema di responsabilità per attività svolta in équipe, secondo cui

ove l’intervento sia eseguito in équipe, l’obbligo di diligenza grava su ciascun componente e non concerne solo le specifiche mansioni a lui affidate, ma anche il controllo sull’operato e sulle condotte erronee altrui.”

Questo con buona pace delle difese del primo medico (che aveva opposto una sua posizione meramente secondaria e subordinata a quella del primo operatore nell’intervento). Per approfondimenti, si veda anche il mio post Responsabilità per lavoro d’equipe: il secondo aiuto risponde se non controlla l’attività altrui.

La semplice accettazione del paziente presso la struttura comporta sempre la conclusione di un contratto atipico di spedalità 

Anche con riferimento alla posizione della clinica, il Tribunale conferma la posizione consolidata della giurisprudenza, secondo cui la mera

“accettazione del paziente in una struttura – ai fini del ricovero o di una visita ambulatoriale – comport(a) di per sé la conclusione di un contratto atipico, cd. di spedalità”

col paziente stesso.

A tal fine, e per l’assunzione da parte della clinica delle responsabilità scaturenti da tale contratto,

“non (è) rilevante che non sia stato concretamente necessario ricorrere a personale paramedico, medicinali o ad attrezzature tecniche ulteriori rispetto al locale dove il trattamento fu eseguito. Ciò che, infatti, rileva è che … abbia accettato il paziente per l’esecuzione del trattamento estetico de quo all’interno della propria struttura sanitaria. Del pari scarsamente rilevante è la circostanza che … non abbia percepito alcun compenso con riferimento al trattamento in questione, ben potendo essere il contratto con paziente a titolo gratuito.”

Sul punto, sempre in tema di infezioni nosocomiali, vedi anche “Decesso del paziente per infezione da stafilococco aureo ed onere della prova in giudizio”.

La prova liberatoria nelle cause in materia di infezioni nosocomiali

Le indagini tecniche svolte nel procedimento hanno confermato che la presenza di Escherichia Coli fosse “assai probabilmente” riconducibile ad inquinamento perioperatorio, e ciò perché

“Nessuna prova è stata offerta in ordine alla effettiva sterilità dei locali in cui fu eseguito l’intervento e della strumentazione utilizzata… i convenuti non hanno fornito indicazione alcuna in ordine ai protocolli adottati per la prevenzione di infezioni ospedaliere, né i medici convenuti – entrambi operatori nell’intervento de quo e dunque tenuti ad operare con la dovuta prudenza e diligenza – hanno dato atto delle verifiche e precauzioni adottate a tal fine.”

Ciò non bastasse, i CTU hanno censurato la condotta dei medici non solo in merito all’omessa prevenzione, ma anche con riferimento alla cattiva gestione dell’infezione, posto che “il quadro infettivo iniziato subito dopo l’intervento e durato 5 mesi è stato gestito con lunghi e inutili tentativi di mantenere gli impianti difficilmente l’infezione di un impianto, qualunque esso sia si può risolvere senza la rimozione dello stesso, come infatti è successo. Sarebbe stato prudente rimuovere gli impianti dopo i primi tentativi fallimentari di terapia antisettica, bonificare così le tasche ed eventualmente dopo un adeguato periodo di tempo (almeno 6 mesi), se il paziente lo richiedeva, reimpiantare due nuove protesi.”

Come è stato ripartita la responsabilità tra medici e struttura?

Sulla base di quanto precede, il Tribunale:

  • da un lato, ha affermato la responsabilità sia dei medici che della struttura tanto per l’insorgenza, quanto per il prolungamento dell’infezione sofferta dal paziente;
  • dall’altro lato, ha rigettato la domanda di manleva integrale (ovverosia di essere tenuta indenne in caso di eventuale condanna) formulata dalla clinica nei confronti dei due medici.

Sul tema del regresso della struttura nei confronti del medico si è recentemente pronunciata la Cassazione osservando che, nel rapporto interno tra la struttura sanitaria e il medico, la responsabilità per i danni cagionati da colpa esclusiva di quest’ultimo deve essere ripartita in misura paritaria, in quanto

“la struttura accetta il rischio connaturato all’utilizzazione di terzi per l’adempimento della propria obbligazione contrattuale, a meno che dimostri un’eccezionale, inescusabilmente grave, del tutto imprevedibile (e oggettivamente improbabile) devianza del sanitario dal programma condiviso di tutela della salute che è oggetto dell’obbligazione”.

Nel caso in commento non sono stati giudicati esistenti i presupposti per derogare alla regola della responsabilità condivisa tra medici e clinica.

Inoltre, l’origine nosocomiale dell’infezione insorta nel paziente è stata giudicata indicativa di precise responsabilità della struttura, la quale non ha offerto alcun elemento che consentisse di valutare la correttezza dei protocolli adottati per la prevenzione delle infezioni ospedaliere e per garantire l’effettiva sterilità dei locali e della strumentazione messi a disposizione per l’intervento sul paziente.

Quanto alla posizione dei due medici convenuti è stato considerato evidente il maggior apporto del primo operatore nella gestione del paziente tanto in fase operatoria – nel corso della quale avrebbe dovuto essere verificata e garantita la sterilità di ambienti e strumentazione – ma anche in quelle successive. Tuttavia, come abbiamo visto, non è stata ritenuta immune da responsabilità nemmeno la sua collaboratrice, la quale a sua volta avrebbe dovuto verificare la situazione di sterilità operatoria ed intervenire sul paziente al fine di indurlo più rapidamente alla rimozione delle protesi.

Per concludere

Sulla base di quanto precede, il Tribunale ha condannato medici e clinica, in solido tra loro, a corrispondere al paziente la somma di € 37.260,00, oltre ad interessi e spese, con le seguenti ripartizioni interne:

  • 40% a carico della struttura sanitaria;
  • 40% a carico del primo operatore, e
  • 20% a carico della sua collaboratrice.

Ci aggiorniamo presto con un altro, interessante argomento!

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A presto!

LEGGI LA SENTENZA

Trib. Milano, Sez. I, n. 1007 del 5 febbraio 2020