La condotta dell’odontoiatra che estrae i denti del paziente senza necessità e commette errori grossolani? Può essere penalmente rilevante

Sono contestate svariate omissioni e scorrettezze a carico dell’imputato: dal difetto dei consensi informati relativi all’inserimento degli impianti, alle numerose e non necessarie estrazioni dentarie ed alle complicazioni successive, che avrebbero dovuto indurre a modificare completamente l’iter terapeutico, fino all’omissione della terapia antibiotica, in violazione delle linee guida applicabili. Tutti questi elementi conducono a qualificare la condotta del medico come colposa e penalmente rilevante, per cui l’odontoiatra sarà tenuto anche civilmente al risarcimento dei danni subiti dal paziente.

Torniamo oggi sul punto della responsabilità dell’odontoiatra per esaminare una recente sentenza della Corte di Cassazione (la n. 38615 del 19 settembre 2019) che conferma la possibile configurazione come responsabilità penale – con i relativi riflessi civilistici – della condotta imperita del dentista.

Il caso

Una signora si affida alle cure di un odontoiatra per rinnovare la protesi superiore fissa frontale composta da sei elementi, non essendo più soddisfatta del suo aspetto estetico.

Il medico le prospetta un articolato piano di cure, comprendente sei estrazioni (poi divenute sette), quattro impianti endossei, una devitalizzazione e l’applicazione delle necessarie corone, che viene accettato dalla paziente. Si procede dunque alle estrazioni ed alla devitalizzazione del canino sinistro e, successivamente, tolte le suture, al posizionamento di quattro impianti.

A breve distanza di tempo il quadro clinico della paziente peggiora drasticamente, con imponente sanguinamento delle gengive e forte mobilità del ponte frontale, che viene affrontato col posizionamento di tre nuovi impianti.

La paziente si ripresenta una sola volta dall’odontoiatra, con evidenti ematomi e gonfiori al volto; si rivolgerà poi ad altro specialista, dal quale giungerà con un esteso processo infettivo in corso ed una raccolta ascessuale in zona 22 – 23, dove gli impianti presentano anche un completo riassorbimento osseo.

L’esito del giudizio di primo grado

Il Tribunale, chiamato in sede penale a valutare la condotta del professionista, giudica infondate le accuse mosse nei suoi confronti ex art. 590 c.p. (lesioni personali colpose), ritenendo che:

* la condizione della paziente fosse il risultato non solo delle errate cure dell’imputato, ma anche della scarsa igiene orale della paziente, che era stata determinante nell’evoluzione negativa della situazione;

* non fosse nemmeno da escludersi un qualche evento imprevisto ed inevitabile dall’odontoiatra, che aveva provocato la caduta dell’impianto e la rottura del canino;

* inoltre, pur non risultando eseguita un’ortopantomografia prima della programmazione di qualsiasi intervento, il dentista era in possesso di una lastra risalente ad un anno prima dell’inizio delle cure, e ciò poteva essere ritenuto sufficiente.

Il Tribunale concludeva pertanto ritenendo che, nonostante l’imputato avesse avuto un approccio senz’altro aggressivo e non conservativo, non fosse possibile ravvisare profili di colpa nella sua condotta.

La riforma della sentenza da parte della Corte d’Appello

La Corte d’Appello riforma la pronuncia di primo grado, affermando la responsabilità dell’odontoiatra ai fini civili in ordine al reato ascrittogli e condannandolo al risarcimento del danno a favore della parte civile, con una provvisionale di Euro 25.000,00.

I giudici di secondo grado operano una diversa complessiva valutazione delle risultanze probatorie, valorizzando l’esito della consulenza tecnica d’ufficio e le svariate scorrettezze ed omissioni commesse dall’odontoiatra evidenziate dalla stessa, e cioè:

  • la mancata informativa alla paziente circa la tipologia e le possibili conseguenze dei trattamenti pianificati ed il conseguente difetto dei consensi informati relativi alle estrazioni dentarie, all’inserimento degli impianti ed alle complicazioni successivamente presentatesi, che avrebbero dovuto indurre a modificare completamente l’iter terapeutico;
  • l’omessa prescrizione degli esami clinici richiesti dalla natura del trattamento ovvero degli accertamenti diagnostici preliminari, incluse la radiografia panoramica iniziale – imprescindibile per una valutazione di necessità o meno di ricorrere ad estrazioni dentarie – e la TAC, che avrebbe consentito di meglio valutare la condizione ossea della paziente;
  • la non necessarietà delle estrazioni dentarie, adottate in loco di un più opportuno piano terapeutico di natura conservativa mediante cura canalare, con particolare riferimento al canino superiore destro (dente fondamentale per guidare l’occlusione ed i movimenti fisiologici della mandibola);
  • l’evidente errore di biomeccanica commesso nel posizionamento del ponte, ipotizzando erroneamente una protesi da canino a canino e determinando così la frattura e la perdita del canino superiore sinistro;
  • l’omissione della prescrizione di una cura antibiotica alla paziente, in violazione delle linee guida applicabili.

Secondo la Corte d’Appello, tutti questi comportamenti contribuiscono a qualificare la condotta dell’odontoiatra come imperita, con quanto ne consegue in termini di affermazione della sua responsabilità penale in ordine al reato ascrittogli e di risarcimento del danno ai fini civili.

La conferma della Cassazione

La Corte di Cassazione, chiesta di pronunciarsi nuovamente sulla vicenda mediante ricorso del medico, conferma il giudizio della Corte d’Appello.

A supporto della impugnazione della sentenza, l’odontoiatra deduce la violazione del principio di diritto secondo cui, quando una sentenza assolutoria di primo grado sia riformata in grado d’appello, la Corte d’Appello sarebbe obbligata, anche d’ufficio, a rinnovare l’istruzione dibattimentale, rinnovo non avvenuto nel caso in commento. In altri termini la Corte d’Appello – che, a differenza del Tribunale, aveva ritenuto decisiva la dichiarazione del perito di parte per condannare l’odontoiatra – avrebbe avuto l’obbligo di risentire il suddetto teste al fine di meglio valutare la sua deposizione. In mancanza, la sentenza impugnata doveva considerarsi nulla.

Secondo la Cassazione il motivo va disatteso.

Infatti, l’obbligo di rinnovazione ricorre nel caso in cui la Corte d’Appello basi la sua più severa decisione su una diversa valutazione dell’attendibilità di una prova dichiarativa (per esempio, una testimonianza) già assunta in primo grado, ed è strettamente connessa alla struttura orale del processo. L’obbligo di rinnovazione ricorre, per esempio, quando in grado d’appello venga messa in dubbio la credibilità di un testimone o il contenuto della sua deposizione, dubbio che di solito non può essere risolto mediante la sola lettura delle dichiarazioni rese resa in primo grado.

Non così quando la sentenza di condanna, come nel caso in commento, si basi su una differente valutazione del complesso delle prove già dedotte. In tal caso, infatti, il contenuto e l’attendibilità della fonte di prova rimangono inalterati; ciò che cambia è il ragionamento dei giudici che, con una seconda valutazione, eliminano eventuali contraddizioni o illogicità in cui è incorso il giudice di primo grado nella valutazione dello stesso materiale.

Nel caso in commento, dunque, la Cassazione ha ritenuto non sussistesse alcun obbligo di risentire il perito di parte, posto che il diverso giudizio (di colpevolezza) raggiunto a seguito dell’appello si è basato esclusivamente su una “differente complessiva valutazione probatoria delle risultanze processuali.

Il ricorso è stato dunque rigettato, con condanna del medico anche a rifondere le spese del processo alla parte civile.

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LEGGI LA SENTENZA

Cassazione Penale, n. 38615 del 19 settembre 2019