La reticenza del paziente in sede anamnestica costituisce un limite al dovere del sanitario di accertare le sue condizioni psico-fisiche?

Una volta iniziato il rapporto curativo, la ricerca della situazione effettivamente esistente in capo al paziente – per quanto concerne alle evidenze del suo stato psico-fisico – è interamente affidata al sanitario, che deve condurla in piena autonomia anche rispetto alle dichiarazioni rese dal paziente stesso in sede di anamnesi, esponendosi a responsabilità in caso contrario; ciò con un limite, e cioè che le condizioni del paziente devono essere accertabili, ossia deve sussistere un motivo che giustifichi e renda necessario porre in essere taluni esami piuttosto che altri.

 

Oggi vi segnalo un’interessante pronuncia della Corte d’Appello di Venezia concernente l’onere del sanitario di accertare le dichiarazioni rese dal paziente in sede anamnestica e quando l’omessa verifica delle stesse, se incomplete o reticenti, può comportare responsabilità per il medico.

 

Il caso

Una signora alla seconda gravidanza, a seguito di travaglio di parto naturale, dà alla luce un bimbo affetto da limitazione funzionale della spalla ed ipovalidità del braccio destro.

I genitori assumono che tale condizione sia da addebitare al non corretto comportamento dei sanitari i quali – nonostante i problemi di distocia sofferti dalla paziente anche durante il parto della primogenita e l’elevato rischio di recidiva – avevano omesso di eseguire una ecografia e di consigliare un parto con taglio cesareo; censurano altresì la mancata effettuazione di tutte le manovre consigliate per risolvere in modo migliore la distocia. I genitori agiscono dunque in giudizio contro l’Azienda Ospedaliera chiedendone la condanna al risarcimento dei danni subiti.

Il Tribunale rigetta le domande; i genitori si rivolgono dunque alla Corte d’Appello chiedendo la revisione della sentenza di primo grado.

 

Il motivo principale d’impugnazione avanti alla Corte d’Appello

Uno dei motivi principali d’impugnazione della sentenza di primo grado consiste nell’allegazione dei ricorrenti che, secondo la costante giurisprudenza,

una volta iniziato il rapporto curativo, la ricerca della situazione effettivamente esistente in capo al paziente è affidata al sanitario, che deve investigarla in modo pieno, senza affidarsi all’indirizzo che può avergli suggerito la dichiarazione resa in anamnesi dal paziente, integrando un diverso operare una palese mancanza di diligenza del sanitario stesso.

Secondo i ricorrenti, tale principio – che è tratto dalla sentenza-cardine della Corte di Cassazione, la n. 20904 del 13.9.2013 – avrebbe dovuto essere applicato anche nel caso in commento ed avrebbe dovuto indurre i medici ad approfondire la situazione concreta della gestante, circostanza che li avrebbe presumibilmente portati a gestire il suo caso in modo diverso e ad evitare di incorrere nei problemi poi occorsi al piccolo nato.

 

Il caso trattato dalla Cassazione

Nel caso trattato dalla Cassazione nel 2013, un signore si rivolge al Pronto Soccorso allegando dolore al fianco a seguito di un trauma contusivo, refertato come accidentale, che viene trattato con antidolorifici.

Seguono numerosi accessi al Pronto Soccorso, prima, ed a due ospedali poi, ed un progressivo, sensibile peggioramento delle condizioni di salute del paziente, fino al decesso. Nelle more, i sanitari scoprono una scheggia di legno nel corpo del paziente, ma ormai sono passate settimane dal primo accesso al Pronto Soccorso e lo stato d’infezione (fascite necrotizzante) è ormai troppo avanzato per riuscire a salvarlo.

La Corte, in quel caso, ritenne biasimevole la condotta dei sanitari per non aver adeguatamente e tempestivamente investigato la possibile presenza di un corpo estraneo: venne tra le altre cose giudicato non rispondente a diligenza qualificata la refertazione in modo del tutto generico, come evento accidentale, del trauma occorso al paziente presentatosi al Pronto Soccorso, quando, sulla base delle circostanze concrete, dietro allo stesso si sarebbe potuto celare un ipotetico fatto di reato. Per la Corte sarebbe stato necessario, in presenza di reticenza del paziente in sede anamnestica, almeno registrare in cartella i dubbi nutriti in merito (e ciò anche a prescindere da eventuali ulteriori doveri di riferirne all’autorità giudiziaria).

 

L’interpretazione data al principio dalla Corte d’Appello

Nel caso oggi in commento, la Corte d’Appello fa propria la massima della Cassazione del 2013, evidenziando tuttavia che la stessa prosegue sottolineando che

l’incompletezza o reticenza delle informazioni fornite dall’interessato sulle proprie condizioni psico-fisiche può comportare la responsabilità del sanitario che non provveda ai necessari approfondimenti, laddove esse siano accertabili.

E proprio quest’ultimo passaggio è, secondo la Corte d’Appello, la chiave di volta della decisione della Cassazione:

le condizioni del paziente devono essere accertabili, ossia deve sussistere un motivo che giustifichi e renda necessario porre in essere taluni esami piuttosto che altri”.

 

L’applicazione del principio nel caso concreto

Nel caso in commento:

  • la paziente non aveva fornito ai sanitari alcuna informazione circa le complicanze della precedente gravidanza
  • anche la cartella clinica del ginecologo che aveva seguito tale gravidanza nulla riportava in merito.

Alla luce di quanto precede, la Corte d’Appello ha escluso qualsiasi responsabilità dei sanitari nel caso di specie, sulla base della considerazione che

In assenza di qualsivoglia elemento indiziario che potesse in qualche modo orientare i medici ospedalieri verso accertamenti ulteriori sulla madre, non era certamente pretensibile che essi ponessero in essere tutta la possibile gamma di verifiche mediche in relazione alle infinite problematiche che possono, in ipotesi, essere connesse ad un parto.

Non essendo stati i medici informati in alcun modo della circostanza di un parto distocico, né dal ginecologo curante, né dalla paziente, non sarebbero stati in grado di ipotizzare, neanche in termini probabilistici, che vi fosse un pericolo di distocia tra le molteplici problematiche che possono essere connesse al parto, pericolo peraltro mai da nessuno citato.

E ciò anche in considerazione del fatto che attualmente le linee guida favoriscono la scelta del parto naturale allorché non vi siano controindicazioni, come all’apparenza nel caso in commento.

In conseguenza a quanto precede, ed in considerazione del fatto che la condotta tenuta dai sanitari durante il parto è stata giudicata corretta da parte del consulente tecnico d’ufficio nominato dal Tribunale, i motivi dell’appello sono stati integralmente rigettati ed i ricorrenti condannati al rimborso delle spese legali dell’Azienda Ospedaliera.

 

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LEGGI I DOCUMENTI

Corte d’Appello di Venezia, Sez. IV, sent. 3.7.2017

Cassazione Civile, Sez. III, sent. n. 20904 del 13.9.2013