Quando il medico risponde per la prescrizione di un farmaco potenzialmente pericoloso?

In relazione alla scelta di somministrare un farmaco potenzialmente pericoloso, il medico sarà responsabile se ometta un’attenta valutazione e comparazione degli effetti positivi del farmaco rispetto ai possibili effetti negativi gravi ed ometta altresì il costante monitoraggio, nel corso della cura, delle condizioni del paziente

Oggi ci occupiamo di una interessante sentenza della Corte di Cassazione pubblicata lo scorso febbraio (Cass. Pen., Sez. IV, n. 8086 del 25 febbraio 2019) che concerne un caso di prescrizione di farmaci vietati, ai quali è seguita la morte della paziente. Quello che trattiamo è il primo caso di processo per un decesso da uso terapeutico di fendimetrizina.

Il caso

Una signora viene seguita durante una dieta dimagrante dal medico di fiducia, specialista in endocrinologia e diabetologia. Quest’ultimo le prescrive un farmaco a base di fendimetrazina, farmaco anorressizzante assoggettato a rigide limitazioni di prescrizione e di somministrazione con vari Decreti Ministeriali a partire dal 1987 poi definitivamente vietato nel 2000.

In associazione alla fendimetrazina, il medico prescrive altri farmaci ad effetto lassativo e diuretico, sottovalutando lo stato psico-fisico già debilitato della paziente per aver perso 40 chili di peso in sei mesi ed omettendo di acquisire le informazioni anamnestiche e di disporre gli accertamenti clinici strumentali necessari a valutare l’insorgenza di eventuali complicanze.

I farmaci in questione, assunti insieme e per un periodo prolungato, determineranno “un’azione aritmogena sul miocardio ed uno squilibrio idroelettrico”, causando la morte della paziente.

Sia il Tribunale che la Corte d’Appello confermano la responsabilità penale del medico per omicidio colposo; oggi esaminiamo l’esito del ricorso in Cassazione.

La difesa del medico: nessun precedente in materia? Manca il nesso causale

La difesa del medico si basa, innanzitutto, sull’assunto della fondamentale innocuità del farmaco assunto in dosi terapeutiche, testimoniata dall’assenza di una casistica significativa nella letteratura scientifica di decessi attribuiti all’assunzione di fendimetrazina: in mancanza di una cd. legge di copertura, quanto meno a livello statistico, e dunque senza un concreto ancoraggio scientifico, le Corti di merito avrebbero emesso la condanna sulla base di una sorte di indefinita “pericolosità normativa” del farmaco in questione, come tale irrilevante.

Inoltre, la totale assenza di precedenti di decessi per assunzione di fendimetrazina a scopo terapeutico escludeva la possibilità che il medico potesse, nel caso concreto, prevedere la morte della paziente, posto che le sue prescrizioni erano contenute alla metà dei dosaggi massimi consentiti.

Mancando dunque una certezza “oltre ogni ragionevole dubbio, non sussisterebbe il nesso di causalità (ovverosia rapporto causa-effetto) tra l’utilizzo prolungato del farmaco (vietato) in questione ed il decesso della paziente.

La posizione della Cassazione

Nel decidere il caso di specie, la Cassazione trascende l’apparente problema della mancanza di una casistica di mortalità ad hoc connessa al farmaco in questione. Secondo la Corte,

la mancanza di detta casistica non significa ex se che la fendimetrazina non sia una sostanza potenzialmente letale ovvero che, nel caso concreto, non abbia determinato la crisi aritmica che ha condotto al decesso della donna”.

Con tale premessa, l’analisi della Corte si estende alla classe di farmaci – simpaticomimetici – cui appartiene la fendimetrazina: gli effetti nocivi di quest’ultima sulla circolazione e sull’apparato cardiocircolatorio sono tipici della classe farmaceutica di appartenenza, e sono testimoniati da copiosa letteratura scientifica; attesa l’esistenza di informazioni scientifiche affidabili sul principio attivo del farmaco, diventa irrilevante l’inesistenza di studi specifici sugli effetti della fendimetrazina.

La pericolosità di questi composti, testimoniata non solo dalla letteratura ma anche dalla definitiva inclusione della fendimetrazina, nel 2011, nell’elenco della Tabella 1 del DPR 309/1990 (Testo Unico in materia di stupefacenti e sostanze psicotrope) implica che il medico avrebbe dovuto prestare particolare attenzione alla relativa prescrizione:

“proprio a ragione di questa pericolosità, sul medico, portatore di una posizione di garanzia rispetto al paziente che a lui si affida, grava un obbligo di adeguata gestione del rischio che, nel caso di specie, è stato del tutto disatteso”.

Gli accertamenti sullo stato di salute del paziente in corso di cura vanno fatti solo in caso di emergenza?

Un altro argomento di discussione in Cassazione concerne i mancati accertamenti svolti dal medico sullo stato di salute della paziente: secondo la sentenza di grado d’appello, il sanitario “aveva del tutto omesso di accertare, in maniera approfondita, la complessiva clinica della (paziente) prima di procedere al prolungamento del trattamento sanitario”, omettendo dunque di rilevare, tra l’altro, un’anomalia cardiaca sicuramente preesistente (ingrossamento del ventricolo sinistro) che, unita alla condizione fisica di obesità ed al reiterarsi della prescrizione dei farmaci sopra visti, aveva aumentato il rischio-morte della paziente.

Secondo la difesa del medico, dagli atti non ricorreva alcuna emergenza per la quale il medico fosse tenuto a svolgere accertamenti per scoprire le patologie di cui soffriva la paziente.

Ma secondo la Corte, tale difesa non fa che confermare la mancanza di diligenza del medico nel caso in questione:

“In relazione alla scelta del medico di somministrare un farmaco potenzialmente pericoloso… egli non va esente da colpa se ometta un’attenta valutazione e comparazione degli effetti positivi del farmaco rispetto ai possibili effetti negativi gravi ed ometta altresì il costante controllo, nel corso della cura, delle condizioni del paziente”,

principio, questo, applicabile anche alle ipotesi prescrizione di farmaci off-label.

Che poi, nel caso il commento, il monitoraggio non vi sia proprio stato è confermato dalle affermazioni dello stesso medico coinvolto, che ha affermato che la paziente proseguì la cura – pericolosa – indipendentemente da sua prescrizione.

Per concludere

Secondo la Corte, l’evento-morte, nel caso di specie, non solo era

  • prevedibile, considerati la pericolosità dei farmaci utilizzati e la presenza nella paziente di fattori di rischio che aumentavano la possibilità di effetti collaterali anche gravi, ma sarebbe stato altresì
  • evitabile: secondo i periti, infatti, in mancanza di valide alternative di giustificazione del decesso, “con elevato grado di probabilità logico-razionale” la paziente non sarebbe deceduta se il medico avesse agito con la dovuta diligenza, ovverosia se non avesse somministrato il farmaco (vietato) e comunque se almeno avesse rispettato la durata massima di prescrizione di tre mesi.

L’esistenza del nesso di causa tra la prescrizione dei farmaci vietati ed il decesso della paziente è stato dunque confermato ed il ricorso rigettato.

Ci aggiorniamo la prossima settimana con un altro, interessante argomento!

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A presto!

LEGGI LA SENTENZA

Cassazione Penale, Sez. IV, n. 8086 del 25 febbraio 2019