Infezioni correlate all’assistenza: la prova dell’adozione dei protocolli non basta

In un eventuale giudizio in tema di infezioni nosocomiali o comunque correlate all’assistenza, grava sulla struttura l’onere della prova di aver adottato tutte le cautele prescritte dalle vigenti normative e dalle leges artis al fine di prevenire l’insorgenza di patologie infettive: tuttavia, tale prova non sarà liberatoria se la struttura non è in grado di provare di aver concretamente applicato i protocolli di prevenzione nel caso specifico.

Oggi torniamo sul tema delle infezioni legate all’assistenza (ICA) e dell’onere della prova nei relativi giudizi, esaminando un’interessante ordinanza della Cassazione Civile (n. 16900 del 13 giugno 2023) in materia.

Il caso

Un neonato, ricoverato nel reparto di Terapia Intensiva Neonatale di un noto ospedale subito dopo il parto, decede a causa di un’infezione da Serratia Marcescens.

I genitori agiscono contro l’ospedale per ottenere il risarcimento dei danni patiti.

Il Tribunale rigetta la richiesta, ritenendo – sulla base delle risultanze del procedimento penale separatamente svolto e conclusosi con l’archiviazione della notizia di reato – che fossero stati rispettati, da parte dell’ospedale, gli ordinari standard di prevenzione delle infezioni ospedaliere, anche considerata la naturale predisposizione al rischio di infezioni e di morte del neonato prematuro.

La Corte d’Appello riforma la sentenza di primo grado e condanna l’azienda ospedaliera al risarcimento dei danni subiti dai genitori del neonato (e la sua assicurazione a tenere a sua volta indenne l’azienda ospedaliera da quanto tenuta a pagare in esecuzione della sentenza). L’assicurazione ricorre in Cassazione.

Vediamo qual è l’esito del giudizio.

Come funziona l’accertamento della responsabilità nelle cause concernenti le ICA

Nelle cause per responsabilità medica o sanitaria, ove sia dedotta la responsabilità contrattuale del debitore per l’inadempimento della prestazione di diligenza professionale e la lesione del diritto alla salute, il danneggiato deve innanzitutto provare di aver subito un danno (e cioè l’aggravamento della situazione patologica o l’insorgenza di nuove patologie) e (anche a mezzo di presunzioni) il nesso di causalità fra tale condizione e e la condotta dell’obbligato. Nel nostro caso i genitori avevano l’onere di provare che il decesso del loro piccolo fosse dovuto ad un’infezione, e che quest’ultima avesse origine nosocomiale.

Sotto quest’ultimo profilo, ai fini dell’affermazione della responsabilità della struttura sanitaria rilevano tre criteri fondamentali:

  • il criterio temporale – e cioè il numero di giorni trascorsi tra il ricovero o le eventuali dimissioni dall’ospedale e l’insorgenza dell’infezione
  • il criterio topografico – i.e. l’insorgenza dell’infezione nel sito chirurgico interessato dall’intervento, in assenza di patologie preesistenti e di cause sopravvenute eziologicamente rilevanti, da valutarsi secondo il criterio della cd. “probabilità prevalente”, e
  • il criterio clinico – in modo che, in ragione della specificità dell’infezione, sarà possibile verificare quali, tra le necessarie misure di prevenzione era necessario adottare.

Nel caso oggi in commento, secondo le univoche indicazioni dei consulenti tecnici, l’infezione che aveva colpito il neonato aveva avuto certamente origine nosocomiale, dal momento che:

(1) il neonato era stato ricoverato sin dalla nascita nel reparto di terapia intensiva neonatale dell’ospedale in questione;

(2) il batterio in questione (la Serratia Marcescens) è un noto patogeno opportunista nosocomiale, segnatamente nelle terapie intensive neonatali;

(3) tale batterio non fa parte della flora intestinale del neonato alla nascita: ciò implica una colonizzazione del neonato nel corso della permanenza ospedaliera;

(4) non era stato provato ed era comunque improbabile che l’infezione derivasse da pregresse malattie della madre, ovvero da batteri preesistenti nell’intestino del neonato e favoriti dall’immunodepressione.

Quali criteri per escludere la responsabilità della struttura?

Una volta accertato il nesso causale tra l’insorgenza dell’infezione e il ricovero in reparto, è onere della struttura ospedaliera provare che l’esatta esecuzione della prestazione sanitaria sia stata resa impossibile da una causa imprevedibile e inevitabile.

In particolare, in tema di infezioni nosocomiali, spetterà alla struttura provare:

  1. di aver adottato tutte le cautele prescritte dalle vigenti normative e dalle leges artis, al fine di prevenire l’insorgenza di patologie infettive;
  2. di aver applicato i protocolli di prevenzione delle infezioni nel caso specifico.

Sul primo punto, è stato in dettaglio precisato, anche al fine di fornire al c.t.u. la documentazione necessaria, gli oneri probatori gravanti sulla struttura sanitaria concernono, in linea generale, i seguenti adempimenti:

  1. l’indicazione dei protocolli relativi alla disinfezione, disinfestazione e sterilizzazione di ambienti e materiali;
  2. l’indicazione delle modalità di raccolta, lavaggio e disinfezione della biancheria;
  3. l’indicazione delle forme di smaltimento dei rifiuti solidi e dei liquami;
  4. le caratteristiche della mensa e degli strumenti di distribuzione di cibi e bevande;
  5. le modalità di preparazione, conservazione ed uso dei disinfettanti;
  6. la qualità dell’aria e degli impianti di condizionamento;
  7. l’attivazione di un sistema di sorveglianza e di notifica;
  8. l’indicazione dei criteri di controllo e di limitazione dell’accesso ai visitatori;
  9. le procedure di controllo degli infortuni e delle malattie del personale e le profilassi vaccinali;
  10. l’indicazione del rapporto numerico tra personale e degenti;
  11. la sorveglianza basata sui dati microbiologici di laboratorio;
  12. la redazione di un report da parte delle direzioni dei reparti da comunicare alle direzioni sanitarie al fine di monitorare i germi patogeni-sentinella;
  13. l’indicazione dell’orario della effettiva esecuzione delle attività di prevenzione del rischio.

(vedi la sentenza della Cassazione n. 6386 del 03/03/2023, da me commentata qui).

Nel caso in commento, non vi è stata contestazione sull’adozione da parte dell’azienda sanitaria, in via generale, dei protocolli volti a evitare, per quanto possibile, tale genere d’eventi; anzi, nel caso di specie, la stessa Corte d’Appello ha dato atto che

la copiosa messe di documenti depositati dall’Azienda Sanitaria depongono indubbiamente per un risalente, costante e meritorio interessamento da parte di quell’amministrazione al problema delle c.d. Infezioni Correlate all’Assistenza (ICA), e quindi di avere predisposto tutto quanto necessario per istruire il personale, dotarlo di quanto necessario e organizzare a tal fine la struttura”.

Ma la formale adozione dei protocolli non basta: bisogna anche provare di averli concretamente applicati

Ben venga, dunque, la deduzione in giudizio dei protocolli e delle procedure formalmente adottati dalla struttura per affrontare le ICA.

Ma dedurre mere procedure generali non basta: secondo la Cassazione, è necessario che tali procedure vengano concretamente applicate, e che della relativa applicazione venga lasciata correttamente traccia. Il punto debole della difesa dell’ospedale nel caso che commentiamo consiste infatti nella circostanza che

“la struttura sanitaria ha bensì provato di aver predisposto protocolli per la prevenzione di infezioni correlate all’assistenza (I.C.A.) volti a evitare, per quanto possibile, tal sorta d’eventi, ma non anche di averli specificamente applicati nel caso concreto… (parte convenuta) non ha provato né chiesto di provare che, nel caso specifico, siano state adottate le necessarie misure.”

Nel dettaglio,

“Nessun documento e nessuna prova riguardano … specificamente il ricovero della (omissis) e quello conseguente del neonato, per cui nulla risulta provato in relazione all’applicazione pratica dei protocolli citati al caso specifico. Al di là delle cartelle cliniche di madre e neonato, che riguardano ovviamente il tipo di trattamenti sanitari applicati e non le precauzioni adottate dagli operatori che dovrebbero essere attestate altrimenti, non vi è nulla che dimostri in concreto le procedure adottate nel caso specifico per il trattamento del minore, dei pazienti a lui vicini e degli apparati. Se quindi deve condividersi la consulenza tecnica dei dottori (omissis) in merito all’assenza di profili di colpa medica nei confronti dei sanitari, nulla la stessa può dire in merito all’adempimento da parte dell’appellata del proprio obbligo di agire per evitare ogni infezione prevedibile e prevenibile”.

 

Per concludere

Alla luce di quanto precede, l’impugnazione è stata dichiarata inammissibile, la sentenza (di condanna) del secondo grado confermata e l’assicurazione ricorrente condannata al rimborso delle spese legali delle altre parti ed al versamento di un importo pari al contributo unificato a titolo di sanzione.

Per maggiori info sul tema, consulta anche i precedenti post del blog.

Ci aggiorniamo presto con un altro, interessante argomento!

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LEGGI L’ORDINANZA

Cassazione Civile, Sez. III, n. 16900 del 13 giugno 2023