Al medico “interno” che recepisce le indicazioni terapeutiche di un collega “esterno” viene richiesto non solo di copiare acriticamente tali indicazioni nel cd. “foglio unico di terapia”, ma di verificarne la congruità prima di consentirne l’esecuzione. Altrimenti ragionando dovrebbe concludersi che il medico interno non avrebbe il potere di modificare indicazioni terapeutiche manifestamente incoerenti, ovvero il dovere di evitare che il personale infermieristico proceda a somministrare terapie palesemente prive di base scientifica o pericolose o secondo modalità non consone, pur avendone preso contezza. Il che renderebbe all’evidenza del tutto superfluo il suo intervento.
Oggi vi segnalo una recente sentenza della Cassazione Penale (n. 15272 del 20 aprile 2022) in tema di falso nei documenti medici.
Il caso
Un medico chirurgo, operante in una RSA privata, attesta falsamente, nel foglio unico di terapia, i trattamenti di cura disposti per una paziente, ivi ricoverata e poi deceduta a poche settimane dal suo ingresso in struttura, omettendo l’indicazione di taluni farmaci e modificando i dosaggi relativi ad altri medicinali effettivamente somministrati.
Il medico viene prima indagato e poi condannato dal Tribunale per il reato di falso ideologico commesso dall’esercente un servizio di pubblica necessità. La sentenza – fatto salvo per l’esclusione di una circostanza aggravante e la conseguente revisione della pena – viene confermata anche in grado d’appello.
Vediamo quali sono i principali motivi e l’esito dell’impugnazione avanti alla Corte di Cassazione.
Che valore legale ha il “foglio unico di terapia”?
La difesa del medico si concentra innanzitutto sulla contestazione del carattere certificativo del “foglio unico di terapia” oggetto di falsificazione, sia per la riferibilità del suo contenuto ad altro medico (che aveva avuto precedentemente in cura la paziente: l’imputato si era infatti limitato a riportare i medicinali prescritti da altro medico, in modo che gli stessi potessero essere in concreto somministrati dal personale infermieristico della RSA), sia per la carenza di rilevanza esterna del documento. Il documento in questione non avrebbe dunque integrato una “dichiarazione di verità” con valenza pubblicistica bensì – limitandosi a riportare i medicinali prescritti e somministrati alla paziente – avrebbe avuto una mera rilevanza interna, privata e non certificativa, a maggior ragione in quanto formato all’interno di una casa di cura privata.
Secondo la Cassazione, tale ricostruzione non collima né con l’effettivo contenuto del documento, né con la sua funzione. Il “foglio unico di terapia” si struttura infatti in due sezioni:
° nella prima il medico della struttura indica la terapia che deve essere eseguita, specificando il dosaggio, gli orari e le modalità di somministrazione dei medicinali;
° nella seconda il personale non medico, al quale tali indicazioni sono rivolte, attesta di avervi provveduto, apponendo la propria sigla a conferma dell’avvenuta somministrazione secondo le disposizioni date dal medico nella prima sezione.
“Le indicazioni articolate nella prima sezione, qualora frutto delle autonome scelte terapeutiche operate dal medico che l’ha redatta, non è in dubbio che assumano valore di certificazione…”.
Ma se il medico avesse solo riportato la terapia definita da altri?
Il valore certificativo del documento deve riconoscersi anche quando il medico compili il foglio unico di terapia sulla base di una scelta terapeutica svolta da altro sanitario (come avvenuto nel caso di specie).
“Anche in questo caso, infatti, il medico non si limita alla mera riproduzione delle indicazioni terapeutiche rappresentate in altri documenti, ma definisce o quantomeno recepisce, avallandola, le stesse, disponendone in concreto l’esecuzione da parte del personale della struttura sanitaria presso cui opera. È dunque possibile riscontrare in ogni caso un’attività diretta di accertamento da parte del medico che compila il “foglio” ed attesta l’effettiva somministrabilità della terapia.”
Il medico non può infatti limitarsi ad una “acritica attività amanuense” di copiatura, anche quando recepisce le indicazioni del collega “esterno”, ma è tenuto a verificarne la congruità prima di consentirne l’esecuzione. Altrimenti ragionando dovrebbe concludersi che il medico interno non avrebbe il potere di modificare indicazioni terapeutiche manifestamente incoerenti, ovvero il dovere di evitare che il personale infermieristico proceda a somministrare terapie palesemente prive di base scientifica o pericolose o secondo modalità non consone, pur avendone preso contezza. Il che, come detto, renderebbe all’evidenza del tutto superflua la previsione del suo intervento.
Che caratteristiche deve avere il falso per costituire reato?
Sulla natura, poi, dei reati di falso, la Cassazione ribadisce trattarsi di fattispecie di pericolo: pertanto, per la sussistenza del reato, non è necessario che l’atto falso abbia effettivamente tratto in inganno alcuno, né che dallo stesso siano derivate conseguenze dannose, ma è sufficiente che la contraffazione abbia capacità ingannatoria, secondo una valutazione da compiersi ex ante ed in concreto.
Non è dunque necessario che il documento, una volta contraffatto, abbia avuto concreta rilevanza esterna alla struttura, essendo sufficiente che la stessa rappresenti una sua caratteristica intrinseca e che dunque il suo contenuto attestativo possa trarre in inganno, ad esempio, i sanitari ospedalieri sull’effettivo contenuto della terapia prescritta.
Nel caso in commento tale rilevanza esterna peraltro sicuramente ricorreva, posto che il documento in questione accompagnava la paziente ogni qualvolta la stessa veniva trasferita presso altra struttura sanitaria per accertamenti o terapie.
Sul tema dei reati di falso, vedi anche il mio precedente post “Cartella clinica “rimaneggiata” per nascondere l’errore: è falso in atto pubblico”.
E se il falso fosse… innocuo?
Infine, la difesa del medico deduce che l’eventuale falsità dell’atto era stata del tutto indifferente per la fede pubblica, in quanto tale falsità era stata posta in essere per rimediare ad un precedente errore contenuto nel foglio unico di terapia, alterazione che tra l’altro non aveva avuto alcuna rilevanza esterna.
Sul punto, la Corte ricorda che l’innocuità del falso non va valutata con riferimento all’uso che dell’atto falso venga fatto, bensì ricorre il cosiddetto “falso innocuo” solo nei casi in cui l’infedele attestazione (nel falso ideologico) o l’alterazione (nel falso materiale) siano del tutto irrilevanti ai fini del significato dell’atto e non esplichino effetti sulla sua funzione documentale.
Per concludere
Alla luce di quanto sopra, tutti i motivi d’impugnazione nel merito della questione sono stati rigettati, ancorché l’impugnazione sia stata accolta in punto di applicazione della pena pecuniaria in luogo della pena detentiva e la sentenza dichiarata nulla sul punto.
Ci aggiorniamo a breve con un nuovo, interessante argomento!
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