Il primario che, consapevole dell’assenza di frattura del paziente, ne dà invece conto nella scheda operatoria, commette una falsa indicazione della diagnosi rilevante ai fini penali. Ma anche a voler ritenere che, per stanchezza, il medico non si sia subito reso conto dell’errore commesso, nel momento in cui il personale di sala operatoria fa notare l’incompatibile allestimento della sala operatoria, un medico d’esperienza non può non rappresentarsi la possibilità di un errore, e dunque risponde della sua condotta in termini di dolo eventuale.
Oggi vi segnalo una sentenza della quinta sezione penale della Corte di Cassazione (n. 8015 del 1° marzo 2021) in tema di cartella clinica e reato di falso in atto pubblico.
Il caso
Una paziente, a seguito di una caduta accidentale, viene sottoposta ad intervento di riduzione di fratture del femore destro in un ospedale siciliano. Durante l’intervento, il primario del reparto di ortopedia si rende conto di avere iniziato ad operare l’arto sbagliato e modifica la cartella clinica per far risultare una frattura anche al femore sinistro (in realtà inesistente).
Sia il Tribunale che la Corte d’Appello dichiarano il primario colpevole di falsificazione della cartella clinica e degli atti ostensibili di rilievo pubblicistico. Vediamo qual è l’esito del ricorso in Cassazione.
La natura della cartella clinica ospedaliera
Nel caso in commento, il primario è stato condannato per il reato di falso in atto pubblico.
Ricordiamo che la cartella clinica di un ospedale pubblico è considerata atto pubblico e fa fede fino a querela di falso. Numerose pronunce della Suprema Corte hanno infatti riconosciuto alla cartella clinica il possesso di tutti i requisiti propri dell’atto pubblico che, se dotato di certezza legale, implica per il giudice un vincolo di verità su ciò che il pubblico ufficiale vi ha attestato, sempre che la parte privata, che vi ha interesse, intenti una querela per falso mirante ad accertare la falsità del documento.
Il definire la cartella clinica come atto pubblico di fede privilegiata comporta una serie di conseguenze sul piano giuridico di non lieve portata, inclusa l’applicazione degli artt. 479 e 476 del codice penale concernenti il falso ideologico e materiale.
L’art. 476 del codice penale (falsità materiale commessa dal pubblico ufficiale in atti pubblici) stabilisce che “il pubblico ufficiale, che, nell’esercizio delle sue funzioni, forma, in tutto o in parte, un atto falso o altera un atto vero, è punito con la reclusione da uno a sei anni. Se la falsità concerne un atto o parte di un atto, che faccia fede fino a querela di falso, la reclusione è da tre a dieci anni.”
L’art. 479 del codice penale (falsità ideologica commessa dal pubblico ufficiale in atti pubblici) dispone l’applicazione delle stesse pene nel caso in cui “il pubblico ufficiale… ricevendo o formando un atto nell’esercizio delle sue funzioni, attesta falsamente che un fatto è stato da lui compiuto o è avvenuto alla sua presenza, o attesta come da lui ricevute dichiarazioni a lui non rese, ovvero omette o altera dichiarazioni da lui ricevute, o comunque attesta falsamente fatti dei quali l’atto è destinato a provare la verità”.
Se c’è consapevolezza della possibilità dell’errore, ricorre il dolo eventuale
Tornando al caso oggi in commento, il motivo principale di impugnazione della sentenza da parte del primario si basa sull’assenza di un elemento soggettivo (dolo o colpa del medico) concernente la modificazione della cartella clinica: se anche una modificazione c’era stata, la stessa doveva considerarsi frutto di una mera leggerezza o della stanchezza del momento, non certo di un atteggiamento colpevole o, ancora peggio, doloso del medico.
In realtà la Cassazione evidenzia come già il Tribunale aveva specificamente escluso, nel caso concreto, una mera leggerezza del medico nella modifica dei documenti operatori: se infatti era ragionevole ipotizzare un’iniziale buona fede – al momento, cioè, dell’inizio dell’intervento sull’arto sano – del primario, è evidente che l’esperienza professionale del medico era tale da escludere che lo stesso non potesse non rendersi conto, nel corso dell’intervento, dell’assenza della frattura al femore sinistro.
“Sull’iniziale atteggiamento soggettivo di buona fede, si innestò nel corso dell’intervento eseguito sull’arto sinistro, la consapevolezza circa l’assenza di una fattura, che rende consapevole e, dunque, assistita da dolo, la falsa indicazione della diagnosi nella scheda” operatoria.
“Anche a voler escludere che, per stanchezza, il ricorrente si fosse reso conto, intervenendo sull’arto sano, dell’errore commesso, egli doveva quantomeno essersi rappresentato (in termini di dolo eventuale) l’errore nel momento in cui il personale di sala operatoria gli fece notare che tutte le attrezzature di sala erano state predisposte per un intervento sul femore di destra.”
Pertanto, anche a voler escludere l’originaria consapevolezza dell’assenza della frattura dell’arto operato (e cioè un atteggiamento doloso della condotta dell’operatore) il medico, a fronte della segnalazione pervenuta dal personale di sala operatoria in merito alla preparazione della sala, non poteva non aver preso in considerazione la possibilità di un proprio errore, confrontandosi con esso ed assumendosi il rischio della sua condotta in termini di dolo eventuale.
In sintesi
Sulla base di quanto precede la Corte di Cassazione ha dichiarato inammissibile il ricorso e condannato il medico al pagamento delle spese processuali, nonché della somma di Euro 3000 in favore della Cassa delle Ammende.
Ci aggiorniamo la prossima settimana con un nuovo, interessante argomento!
Nel frattempo, resta collegato e iscriviti alla newsletter per non perdere i prossimi aggiornamenti.
A presto!
LEGGI LA SENTENZA