Affinché possa sorgere il diritto all’indennizzo, previsto dalla Legge 210 del 1992, in favore di coloro che presentino danni irreversibili derivanti da emotrasfusioni o vaccinazioni obbligatorie, l’interessato dovrà provare l’effettuazione della terapia trasfusionale, il verificarsi dei danni lamentati e il nesso causale tra i primi e la seconda, da valutarsi secondo un criterio di ragionevole probabilità scientifica
Oggi parliamo di emotrasfusioni e vediamo le conclusioni da ultimo raggiunte dalla Cassazione in punto di onere della prova in giudizio.
Nel caso in cui un soggetto abbia riportato danni permanenti in conseguenza ad emotrasfusioni o vaccini obbligatori, infatti, la Legge 210 del 25 febbraio 1992 prevede il diritto del danneggiato al riconoscimento di un indennizzo avente natura assistenziale; ma, in caso di un ipotetico giudizio, quale prova deve dare il paziente per ottenere tale indennizzo?
Il caso
Una signora agisce in giudizio nei confronti della Regione Lazio e dell’allora Ministero del Lavoro, della Salute e delle Politiche Sociali, allegando di aver contratto l’epatite HCV a seguito di un’emotrasfusione, eseguita in occasione di un intervento chirurgico subito nel 1977, e chiedendo la condanna dei convenuti al versamento dell’indennizzo previsto dalla Legge 210 del 1992 per i danni permanenti conseguentemente riportati.
Sia il Tribunale che la Corte d’appello rigettano le domande della paziente, giudicando non essere stata data in giudizio la prova del nesso di causalità tra infezione ed emotrasfusione.
La paziente ricorre in Cassazione: vediamo qual è l’esito dell’impugnazione.
L’onere della prova nelle azioni per l’ottenimento dell’indennizzo a seguito di contagio da emotrasfusione
La Suprema Corte, con una delle ultime ordinanze dell’anno appena concluso (Cass. Civ., sez. Lavoro, n. 29766 del 29 dicembre 2020), fa il punto sul tema dell’onere della prova nelle azioni aventi per oggetto il versamento dell’indennizzo dovuto a seguito della sofferenza di danni permanenti da emotrasfusione, partendo dall’affermazione – pacifica – secondo cui
“ai fini del sorgere del diritto all’indennizzo previsto in favore di coloro che presentino danni irreversibili derivanti da epatiti post-trasfusionali dall’art. 1, comma terzo, della legge 25 febbraio 1992, n. 210, la prova a carico dell’interessato ha ad oggetto l’effettuazione della terapia trasfusionale, il verificarsi dei danni anzidetti e il nesso causale tra i primi e la seconda, da valutarsi secondo un criterio di ragionevole probabilità scientifica”.
Con riferimento alla – non semplice – offerta della prova del nesso causale tra trasfusione e danni sofferti da parte del paziente, la Corte ricorda, citando un suo precedente del 2016, che
“la prova, che grava sull’attore danneggiato, del nesso causale intercorrente tra la specifica trasfusione ed il contagio da virus HCV, può essere fornita – ove risulti provata l’idoneità di tale condotta a provocare il contagio – anche con il ricorso alle presunzioni, in difetto di predisposizione (o anche solo di produzione in giudizio), da parte della struttura sanitaria, della documentazione obbligatoria sulla tracciabilità del sangue trasfuso al singolo paziente, e ciò in applicazione del criterio della vicinanza della prova.”
L’applicazione dei suddetti principi, che di fatto alleggeriscono l’onere della prova a carico del paziente, presuppone necessariamente che il paziente offra quanto meno la prova (anche per presunzioni) dell’avvenuta effettuazione della trasfusione e della sua idoneità a causare il danno lamentato dal paziente.
L’onere della prova della provenienza del sangue utilizzato per l’emotrasfusione e dei controlli eseguiti sullo stesso può invece gravare sulla struttura sanitaria, la quale dispone – per legge o per regola tecnica – della documentazione sulla “tracciabilità” dello stesso: è un’applicazione del c.d. principio della vicinanza alla prova, del quale abbiamo parlato anche nel mio ultimo post.
Le conclusioni nel caso in commento
Nel caso oggi in commento, la prova dell’effettuazione dell’emotrasfusione non risultava essere stata data dalla paziente, posto che:
- in cartella clinica non risultava alcuna registrazione d’effettuazione di emotrasfusioni
- l’unico elemento probatorio dedotto in giudizio in senso contrario consisteva nella (peraltro vaga) conferma testimoniale dell’avvenuta trasfusione da parte del marito della paziente, ritenuta non decisiva dalle Corti di merito.
Alla luce di quanto precede, il ricorso è stato dichiarato inammissibile dalla Corte e la paziente condannata al rimborso delle spese legali ed al pagamento di un ulteriore importo pari al contributo unificato.
Torneremo la prossima settimana sul tema di una possibile azione per il risarcimento dei danni da emotrasfusione e dei relativi termini di prescrizione.
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