L’eventuale provvedimento di sospensione – adottato una volta esclusa la possibilità di impiegare il lavoratore in mansioni lavorative anche inferiori, purché non prevedenti contatti interpersonali con soggetti fragili o comportanti, in qualsiasi altra forma, il rischio di diffusione del contagio da SARS-CoV-2 – risulta legittimamente adottato dalla datrice di lavoro sulla scorta del disposto normativo di cui all’art. 2087 c.c., quale misura atta a tutelare l’integrità e le migliori condizioni di salute dei collaboratori, degli ospiti e di tutti gli utenti della RSA, potendo serbare il rifiuto della vaccinazione, in momento di intensa diffusione del virus, potenziali gravi conseguenze sulla salute dei medesimi soggetti, comprese gravi complicanze di salute e decesso.
Oggi parliamo della tanto discussa sentenza del Tribunale Milano (Sez. Lavoro, n. 2135 del 16.9.2021) che – al di là di quanto affermato nei primi commenti online – ha ribadito i principi generali applicabili sul tema dei poteri e degli obblighi di cui è investito il datore di lavoro – in relazione ad operatori sanitari non vaccinati – per evitare i rischi di contagio da SARS-Cov-2 all’interno della struttura sanitaria.
Attenzione: si tratta di una vicenda risalente al mese di febbraio 2021, e dunque di un caso precedente all’entrata in vigore:
- nel successivo mese di aprile 2021, della norma che ha stabilito l’obbligo vaccinale generalizzato per tutti “gli esercenti le professioni sanitarie e gli operatori di interesse sanitario” che svolgono la loro attività in strutture sanitarie, sociosanitarie e socioassistenziali, pubbliche e private (D.L. 1° aprile 2021, n. 44);
- in data 15 ottobre 2021, dell’obbligo generalizzato di Green-pass per l’accesso ai luoghi di lavoro.
Il caso
Una ausiliaria socio-assistenziale (ASA), dipendente a tempo indeterminato da una cooperativa ed impiegata all’interno di una RSA, rifiuta di aderire alla campagna vaccinale regionale anti-Covid19. Il datore di lavoro, preoccupato per il rischio di incontrollata diffusione del virus all’interno della struttura, pone la lavoratrice in aspettativa senza retribuzione.
La lavoratrice impugna il provvedimento contestandone l’illegittimità ed altresì chiedendo la condanna del datore di lavoro per lite temeraria ex art. 96 c.p.c..
Vediamo qual è l’esito del giudizio di merito.
Il datore di lavoro non ha solo il potere, ma anche l’obbligo di tutelare i lavoratori ed i terzi da rischi esterni che possono minacciare l’ambiente aziendale
Il provvedimento contestato risulta adottato dalla società datrice di lavoro sulla scorta del disposto normativo di cui all’art. 2087 c.c., secondo cui “l’imprenditore è tenuto ad adottare nell’esercizio dell’impresa le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro”.
L’art. 2087 c.c. è una norma di chiusura del sistema di prevenzione ed è diretta a favorire la predisposizione di tutte le cautele atte a preservare la salute del lavoratore, garantendo un ambiente di lavoro sicuro e salubre, tenuto conto della concreta realtà aziendale e della maggiore o minore possibilità di venire a conoscenza e di indagare su determinati fattori di rischio in un determinato momento storico (Trib. Livorno, sez. lav., 11 settembre 2020, n. 247).
La direttiva Ue 2020/739 del 3 giugno 2020 ha incluso il SARS-COV-19 tra gli agenti biologici da cui è obbligatoria la protezione anche negli ambienti di lavoro. Rientra quindi tra i doveri di protezione e sicurezza sui luoghi di lavoro, dettati dal D.lgs. 81/2008, anche quello di tutelare i lavoratori da agenti di rischio esterni derivanti dalla diffusione pandemica di agenti infettivi.
A quanto precede s’aggiunga che, secondo una recente pronuncia del Tribunale di Modena (ord. 23 luglio 2021, n. 2467) il datore di lavoro si pone come garante della salute e della sicurezza sia dei dipendenti, sia dei soggetti terzi che per diverse ragioni si trovano all’interno dei locali aziendali e ha quindi l’obbligo – ai sensi dell’art. 2087 c.c. – di adottare tutte quelle misure di prevenzione e protezione che sono necessarie a tutelare l’integrità fisica dei predetti soggetti:
“L’inserimento del lavoratore nel contesto sociale – id est microcosmo lavorativo – impone un bilanciamento con il diritto alla salute dei pazienti della struttura sanitaria (soggetti fragili, con pregresse e invalidanti patologie) e degli altri dipendenti, nonché con il principio di libera iniziativa economica ex art. 41 Cost.”.
La norma dell’art. 2087 c.c. risulta dunque utilizzabile quale misura atta a tutelare l’integrità e le migliori condizioni di salute non solo dei collaboratori, ma anche degli ospiti e di tutti gli utenti della RSA in tempi di pandemia da COVID-19.
A quali limiti è sottoposto il potere sospensivo del datore di lavoro?
Pur fermo quanto sopra, secondo il Tribunale di Milano, qualora l’adempimento dei suddetti doveri di protezione non si limiti all’impartimento di prescrizioni di condotta (per esempio l’utilizzo della mascherina) o all’adeguamento dell’ambiente di lavoro (per esempio mediante l’installazione di pannelli protettivi in plexiglass), ma si spinga sino al punto di sospendere unilateralmente la prestazione di un dipendente, “la cui perdurante frequentazione dei locali aziendali sia ritenuta incompatibile con la specifica organizzazione del lavoro e la salubrità e sicurezza dell’ambiente lavorativo”, andranno applicati i principi generali in materia.
“Viene, in particolare, in rilievo l’istituto della sopravvenuta impossibilità della prestazione (artt. 1463 e 1464 c.c.), risultando il lavoratore in ambito sociosanitario, che rifiuti di sottoporsi alla vaccinazione, temporaneamente inidoneo, in quanto potenziale maggior veicolo di diffusione del contagio, allo svolgimento della prestazione tipica, prevedente il contatto con soggetti fragili, potenzialmente attingibili dalle gravi o fatali conseguenze della patologia da Covid-19, sino alla sottoposizione ad un ciclo vaccinale completo o, alternativamente, alla cessazione dell’emergenza epidemiologica.”
Tuttavia, posto che la sospensione del lavoratore senza retribuzione rappresenta l’extrema ratio, vi è altresì
“un preciso onere del datore di lavoro di verificare l’esistenza in azienda di posizioni lavorative alternative, astrattamente assegnabili al lavoratore, atte a preservare la condizione occupazionale e retributiva, da un lato, e compatibili, dall’altro, con la tutela della salubrità dell’ambiente di lavoro, in quanto non prevedenti contatti interpersonali con soggetti fragili o comportanti, in qualsiasi altra forma, il rischio di diffusione del contagio da SARS-CoV-2.”
Solo qualora il lavoratore non possa essere utilmente impiegato in altra posizione di lavoro o in altre mansioni equivalenti o inferiori, non implicante rischi di diffusione del contagio, il datore di lavoro potrà procedere alla sospensione del rapporto senza retribuzione per impossibilità temporanea della prestazione, con onere della prova – in caso di contestazione – a carico dello stesso datore.
La decisione nel caso concreto
Nel caso in commento, il datore di lavoro non ha adempiuto all’onere di provare di non poter utilizzare la lavoratrice in mansioni alternative.
“Non può… addursi in senso contrario la determinazione della cooperativa di richiedere la vaccinazione a tutto il personale presente in RSA, compresi amministrativi, operatori di assistenza domiciliare e addetti alle pulizie ed ai servizi di cucina non potendosi, in assenza di obbligo vaccinale generalizzato, che operare una ponderata comparazione tra l’interesse alla salute, prioritariamente riferito ai soggetti fragili, e quello al lavoro”.
La successiva normativa che ha imposto l’obbligo vaccinale generalizzato a carico di tutti i lavoratori del settore sanitario – in merito alla quale vedi il mio precedente post “Vaccini anti-Covid19: le ultime novità per operatori e pazienti” – ha previsto un iter procedimentale specifico per la constatazione e contestazione di omessa vaccinazione, che nel caso che oggi commentiamo non è stato osservato.
Secondo il Tribunale, però, l’illegittimità del provvedimento di sospensione dalla prestazione lavorativa non può condurre alla riammissione in servizio della lavoratrice allo svolgimento delle mansioni di ASA, come richiesto dalla stessa, e ciò a causa del suo persistente rifiuto di sottoporsi alla vaccinazione.
Ai sensi dell’art. 4 comma 1 D.L. 1° aprile 2021, n. 44, infatti,
“la vaccinazione costituisce requisito essenziale per l’esercizio della professione e per lo svolgimento delle prestazioni lavorative dei soggetti obbligati”
la cui mancanza costituisce preclusione allo svolgimento della mansione lavorativa.
In conseguenza di quanto sopra, il Tribunale ha
- condannato la Cooperativa al pagamento, in favore della lavoratrice, “delle retribuzioni maturate dalla data di sospensione alla data di effettiva riammissione in servizio o di legittima sospensione della prestazione lavorativa, con interessi e rivalutazione”
- rigettato la domanda di risarcimento del danno ex art. 96 c.p.c. proposta dalla lavoratrice in quanto giuridicamente infondata
- disposto la compensazione delle spese di lite.
Ci aggiorniamo la prossima settimana con un nuovo, interessante argomento!
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