Responsabilità per lavoro sanitario in équipe: non è una generica responsabilità di gruppo

In caso di responsabilità professionale multidisciplinare per attività medico-chirurgica, l’accertamento delle dinamiche causali rispetto all’evento dannoso deve essere compiuto con riguardo alla condotta e al ruolo di ciascun operatore: non può cioè configurarsi aprioristicamente una responsabilità di gruppo, in particolare quando i ruoli e i compiti di ciascun operatore sono nettamente distinti tra loro, non potendosi trasformare il generico onere di vigilanza in un obbligo generalizzato di costante raccomandazione al rispetto delle regole cautelari e di invasione degli spazi di competenza altrui.

Oggi vi segnalo un’interessante sentenza della Cassazione Penale (n. 16094 del 17 aprile 2023) che sintetizza i principi consolidati in materia di responsabilità per lavoro in équipe.

Il caso

Una paziente, dopo un intervento di gastroresezione, viene ricoverata per essere sottoposta ad un successivo intervento di riduzione di un’ernia post-chirurgica addominale in laparoscopia. Durante tale secondo intervento si riscontrano delle aderenze di anse intestinali alla parete addominale e viene posizionata una mesh (rete) ancorata in PTFE con spiralette in titanio.

Dopo qualche giorno la paziente viene dimessa, ma viene subito nuovamente ricoverata a causa di forti dolori addominali e dispnea; il giorno seguente la paziente viene sottoposta ad angio-tac, dalla quale risulta un “versamento liquido con raccolta saccata nel mesentere“; il giorno dopo viene svolta consulenza chirurgica, che evidenzia la presenza di “sieroma e di versamento tra epiploon e rete intraperitoneale. In atto indicato trattamento conservativo”. Si attendono altri 8 giorni prima di eseguire la TAC e di procedere, rilevato lo stato di peritonite, alla rimozione chirurgica della mesh. Seguono in pochi giorni l’aggravamento irreversibile delle condizioni cliniche e il decesso della paziente.

Per questi fatti i chirurghi vengono in seguito condannati dal Tribunale per il delitto di omicidio colposo della paziente.

La Corte d’Appello riforma la sentenza, dichiarando di non doversi procedere nei confronti dei medici per prescrizione del delitto, ma conferma le statuizioni civili di condanna nei loro confronti al risarcimento dei danni ed alla rifusione delle spese sostenute dalle parti civili. Vediamo qual è l’esito del ricorso in Cassazione.

I motivi della condanna

Per i fatti sopra esaminati, il Tribunale ha ipotizzato una cooperazione colposa di più medici, intervenuti in momenti diversi nella gestione della paziente ed ai quali viene ascritta, in sostanza, la scelta di aver colposamente atteso troppo tempo prima di intervenire chirurgicamente.

Il passaggio ritenuto fondamentale dal Tribunale è l’interpretazione degli esiti della angio-TAC, che i medici hanno erroneamente ritenuto indicativi dell’esistenza di una raccolta saccata anziché di una perforazione dei visceri intestinali; ciò ha comportato il ritardo nell’effettuazione della successiva TAC e della puntura esplorativa ed il concatenato ritardo nell’esecuzione dell’intervento necessario per porre rimedio alla perforazione intestinale, diminuendo così fortemente le chances di sopravvivenza della paziente.

La corretta interpretazione dell’angio-TAC avrebbe, in sostanza, permesso di prevenire lo stato di sepsi generalizzata che ha poi condotto la paziente al decesso.

I principi in tema di lavoro svolto in équipe

Il punto di partenza è dunque che il decesso della paziente è, nel caso in commento, ascrivibile ad un ritardo nell’esecuzione del secondo intervento chirurgico.

Ma sulla base di quali principi tale condotta può essere imputata ai medici che si sono occupati, in successione, dello stesso paziente?

Va premesso che, anche in questo caso, si applicano i principi della cosiddetta “responsabilità di èquipe, riassunti dalla sentenza oggi in commento e schematizzati qui di seguito.

Il principio-base è che

“l’obbligo di diligenza che grava su ciascun componente dell’équipe medica concerne non solo le specifiche mansioni a lui affidate, ma anche il controllo sull’operato e sugli errori altrui che siano evidenti e non settoriali, in quanto tali rilevabili con l’ausilio delle comuni conoscenze del professionista medio“.

Tale obbligo di vigilanza non opera tuttavia rispetto a quelle fasi dell’intervento nelle quali i ruoli e i compiti di ciascun operatore sono nettamente distinti, dovendo trovare applicazione il diverso principio dell’affidamento, secondo il quale

“può rispondere dell’errore o dell’omissione solo colui che abbia in quel momento la direzione dell’intervento o che abbia commesso un errore riferibile alla sua specifica competenza medica, non potendosi trasformare l’onere di vigilanza in un obbligo generalizzato di costante raccomandazione al rispetto delle regole cautelari e di invasione negli spazi di competenza altrui”.

Pertanto,

“In caso di responsabilità professionale, configurata a titolo di cooperazione colposa multidisciplinare, con specifico riferimento all’attività medico-sanitaria svolta in equipe e, più in generale, all’attività medico-chirurgica, l’accertamento del nesso causale rispetto all’evento verificatosi deve essere compiuto con riguardo alla condotta e al ruolo di ciascuno, non potendosi configurare aprioristicamente una responsabilità di gruppo, in particolare quando i ruoli e i compiti di ciascun operatore sono nettamente distinti tra loro, non potendosi trasformare l’onere di vigilanza in un obbligo generalizzato di costante raccomandazione al rispetto delle regole cautelari e di invasione degli spazi di competenza altrui”.

Essenziale manifestare il dissenso

Nell’ambito di un’attività medica in cui cooperano più soggetti, assume però grande rilievo il tema del dissenso manifestato da parte dei soggetti coinvolti.

Sul punto, la giurisprudenza ha più volte affermato che

“In tema di colpa medica, deve escludersi che possa invocare esonero da responsabilità il chirurgo che si sia fidato acriticamente della scelta del collega più anziano, pur essendo in possesso delle cognizioni tecniche per coglierne l’erroneità, ed avendo pertanto il dovere di valutarla e, se del caso, contrastarla”,

ed inoltre che

“il medico componente della équipe chirurgica in posizione di secondo operatore che non condivide le scelte del primario adottate nel corso dell’intervento operatorio, ha l’obbligo, per esimersi da responsabilità, di manifestare espressamente il proprio dissenso, senza che tuttavia siano necessarie particolari forme di esternazione dello stesso”.

Ma come si manifesta il dissenso? Secondo la giurisprudenza, non esistono regole fisse.

In un suo precedente, la Cassazione ha sottolineato infatti che la valutazione dell’idoneità della forma del dissenso al fine di escludere la responsabilità penale deve essere compiuta avendo riguardo al contesto in cui questa opinione viene manifestata, dovendo necessariamente distinguersi tra la situazione in cui si procede a scelte puramente terapeutiche a quella di tipo operatorio (Cass. Pen., n. 43828 del 29/09/2015).

Dunque ogni caso e contesto va valutato individualmente; certamente è importante fare in modo che l’eventuale dissenso sia in qualche modo registrato, in modo tale che se ne possa rinvenire traccia in caso di necessità.

La soluzione nel caso concreto

Nella sentenza in commento, la Cassazione esamina in particolare la posizione di uno dei due chirurghi coinvolti, che aveva svolto un ruolo secondario nella gestione della paziente.

In particolare, la sentenza del grado d’appello – dopo aver evidenziato che il medico aveva tenuto una condotta definita dai consulenti tecnici come “proattiva”addebita allo stesso il fatto di non aver manifestato in maniera espressa il suo dissenso rispetto a scelte terapeutiche non condivise di un collega equiordinato, quindi titolare di analoga posizione di garanzia nei confronti del paziente, anche, eventualmente, rivolgendosi al primario.

Secondo la Cassazione, la decisione impugnata non è condivisibile laddove imputa una corresponsabilità al medico in questione; infatti:

– se, da un lato, la sentenza impugnata riconosce che il medico in questione si era più volte attivato per accelerare gli accertamenti sulla paziente, anche suggerendo azioni ed iniziative poi “cassate” dai colleghi, dall’altro lato non individua le condotte specifiche che il medico avrebbe dovuto tenere onde rendere manifesto il suo dissenso rispetto alla scelta di procrastinare l’intervento chirurgico

– va inoltre considerato che, nel caso concreto, l’opzione di interpellare direttamente il primario era stata giudicata fondamentalmente inutile, e ciò “in base alle modalità di gestione del reparto, come riferito dal coimputato”.

Per concludere

In conclusione, per la Cassazione la motivazione della sentenza impugnata è evidentemente lacunosa e contraddittoria laddove, “pur dando atto in più punti del dissenso manifestato dall’odierna imputata al collega in ordine ad una scelta terapeutica non condivisa, tuttavia ha ritenuto la sussistenza del rapporto di causalità tra la effettiva condotta ascrivibile alla ricorrente e l’evento morte della paziente”.

La sentenza d’appello è stata annullata limitatamente agli effetti civili, con rinvio per nuovo giudizio, al giudice civile competente per valore in grado di appello, anche la liquidazione delle spese tra le parti.

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LEGGI LA SENTENZA

Cassazione Penale, Sez. IV, n. 16094 del 17 aprile 2023