Atti autolesionistici del paziente ed obbligo della struttura di garantirne la sicurezza

Costituisce grave negligenza, se non addirittura imperizia, la mancata disposizione di una consulenza psichiatrica nel caso di un paziente affetto da delirium, condizione che richiede l’ausilio di farmaci di competenza psichiatrica ed interventi ambientali o di supporto atti a garantire la sicurezza del paziente.

Oltre all’obbligo di apprestare al paziente le cure richieste dalla sua condizione, grava infatti sulla struttura l’obbligo di assicurare la protezione delle persone di menomata o mancante autotutela, per le quali detta protezione costituisce una parte essenziale della cura.

Oggi vi segnalo un’interessante sentenza del Tribunale di Pisa di qualche mese fa (n. 1165 del 25.9.2023) in tema di atti autolesionistici del paziente del paziente ed obblighi di protezione della struttura sanitaria.

Il caso

Una giovane psichiatra brasiliana, in vacanza in Italia, è vittima di un incidente in motocicletta. Trasportata d’urgenza in ospedale, le viene diagnosticata una “emorragia subaracnoidea diffusa, con focolai lacero-contusivi, sottodurale; frattura occipitale con diastasi occipite C1, contusioni polmonari”.

All’esito della consulenza neurochirurgica, i sanitari ritengono di non sottoporre la paziente ad intervento chirurgico, ma soltanto a terapia farmacologica con applicazione del collare. A breve dopo il ricovero la paziente inizia a manifestarsi “disorientata, agitata e confusa”, tanto da dover essere sottoposta a contenzione a letto ed a terapia con sedativi, che risultano tuttavia sostanzialmente inefficaci.

Dopo due settimane di ricovero nel reparto di neurochirurgia, una notte, la pazientein preda a confusione mentale e ad agitazione – nonostante la somministrazione prima di una fiala di morfina e poi di una di Serenase – esce dalla sua stanza, si lancia dalla finestra e decede.

I genitori e la sorella fanno causa all’ospedale per ottenere il risarcimento dei danni. Vediamo qual è l’esito del processo.

L’esito della consulenza tecnica

La consulenza tecnica d’ufficio svolta dal Tribunale ha innanzitutto accertato che il decesso della giovane non è imputabile a suicidio volontario o a depressione, bensì ad un esito incongruo della malattia, e specificamente ad “un tentativo di fuga in preda ad uno stato di alterazione dello stato di coscienza e delirio di tipo paranoideo”.

I periti descrivono la minorata capacità temporanea della paziente, successiva al grave trauma cranico subito, come “delirium”, ossia “una manifestazione neurocognitiva complessa di una sottostante anormalità medica…  essenzialmente reversibile, che ha un esordio acuto o subacuto e si manifesta clinicamente mediante una disfunzione cerebrale acuta, caratterizzata da 5 elementi essenziali:

1) cambiamento acuto dello stato mentale associato alla presenza d’inattenzione;

2) stato mentale fluttuante;

3) pensiero disorganizzato;

4) livello di coscienza alterato;

5) presenza di allucinazioni e illusioni“.

A quali obblighi è tenuta la struttura nei confronti del paziente?

È un dato supportato da giurisprudenza costante quello secondo cui qualsiasi struttura sanitaria, nel momento stesso in cui accetta il ricovero d’un paziente, stipula un contratto dal quale discendono due obblighi principali:

  • il primo è quello di apprestare al paziente le cure richieste dalla sua condizione
  • il secondo è quello di assicurare la protezione delle persone di menomata o mancante autotutela, per le quali detta protezione costituisce una parte essenziale della cura.

La prima domanda che si pone nel caso in commento è dunque se il suicidio della paziente fosse un evento prevedibile da parte della struttura ospedaliera che era deputata alla sua cura e custodia: in caso di evento imprevedibile o inevitabile, nessuna responsabilità potrebbe infatti essere addebitata alla struttura.

La seconda domanda è se la struttura abbia fatto tutto quanto astrattamente possibile per evitare l’evento.

Il suicidio della paziente era un evento prevedibile?

Dall’esame delle cartelle cliniche in atti emerge che:

  • la condizione psichica presentata dalla paziente era caratterizzata da “confusione, allucinazioni, difficoltà nell’elaborazione di un pensiero chiaro e comprensibile, difficoltà nell’eloquio con allentamento dei nessi logici, alternanza di movimenti lenti ad agitazione psicomotoria, insonnia alternata a sonnolenza
  • la paziente era spesso agitata e si muoveva all’interno del reparto, anche di notte.

Da tali elementi, secondo i periti del Tribunale, emerge la riconoscibilità della condizione di delirium iperattivo della paziente, stato che richiede un alto carico assistenziale medico ed infermieristico, con stretta supervisione ed il continuo monitoraggio farmacologico del paziente, nonché un intervento multidisciplinare con l’ausilio anche di una consulenza psichiatrica.

La condotta tenuta dalla struttura è stata diligente?

Secondo il Tribunale,

grave profilo di negligenza, e finanche di imperizia, si deve ravvisare nella mancata disposizione di una consulenza psichiatrica, perché la gestione del delirium prevede l’ausilio di farmaci di competenza psichiatrica ed interventi ambientali o di supporto atti a garantire la sicurezza del paziente (…) Il ricovero in ambito specialistico psichiatrico avrebbe ridotto sensibilmente l’attuazione del gesto autolesivo, che non è stato sostenuto da una fenomenica depressiva, ma avvenuto verosimilmente per un tentativo di fuga in preda ad uno stato di alterazione dello stato di coscienza e delirio di tipo paranoideo”…” … è bene far riferimento alle buone pratiche: solo lo specialista psichiatra avrebbe potuto definire “i criteri clinici per il ricovero” in un reparto psichiatrico o eventualmente consigliare, se il quadro psichico fosse stabilizzato, la dimissione in accordo ai neurochirurghi.”

Nel caso in commento la paziente è rimasta invece ricoverata nel reparto di neurochirurgia, gestita, sotto il profilo farmacologico, mediante l’uso di sedativi e, quale meccanismo di contenzione a letto, con dei “fermapolsi di carta plastificata del tipo usa e getta annodat(i) e dotat(i) di strip adesivi ed applicat(i) ai polsi della paziente“, che in tutta evidenzia potevano praticare una blanda contenzione ma erano totalmente inidonei ad assicurare a letto una paziente in stato di irrefrenabile agitazione psico-motoria e con idee di fuga.

Inoltre, nonostante la prescrizione di sorvegliare attentamente la paziente annotata in cartella, la stessa era lasciata fondamentalmente a sé stessa, specie nel periodo notturno, quando – per disposizioni interne – non poteva essere assistita dalla madre o da soggetti estranei al personale della struttura.

In sintesi,

“Il ricovero presso il reparto di psichiatria… avrebbe, con misura percentuale probabilistico di derivazione causale sufficiente ai fini dell’attribuzione di responsabilità contrattuale (più probabile che non, superiore al 50%), comportato meccanismi più efficaci di contenzione e somministrazione di terapie più adeguate al caso di specie”.

Per concludere

Alla luce di quanto precede, il Tribunale ha accolto le richieste dei parenti della paziente e riconosciuto loro il risarcimento del danno da perdita parentale, nella misura di Euro 250.000 ciascuno per i genitori ed Euro 90.000 per la sorella della paziente.

Ti ha interessato l’argomento? Vedi anche i miei precedenti post in materia:

Suicidio del paziente e responsabilità della struttura per violazione degli obblighi di vigilanza

Atti autolesionistici del paziente psichiatrico e limiti alla responsabilità della struttura sanitaria

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LEGGI LA SENTENZA

Tribunale di Pisa, n. 1165 del 25.9.2023