La prescrizione dell’azione di risarcimento dei danni causati da un’emotrasfusione non decorre dal giorno dell’eseguita trasfusione, né da quello in cui si sono manifestati i primi sintomi della malattia, bensì dal giorno in cui il danneggiato abbia avuto consapevolezza della oggettiva riconducibilità del suo stato morboso alla trasfusione subita.
Abbiamo visto nel mio ultimo post che, nell’ipotesi in cui un paziente abbia riportato danni permanenti in conseguenza ad emotrasfusioni o vaccini obbligatori, la Legge 210/1992 prevede il diritto del danneggiato ad un indennizzo avente natura assistenziale; tale indennizzo non esclude tuttavia il diritto al risarcimento degli eventuali danni riportati dal paziente in questione (o dai suoi congiunti), che potrà dunque essere azionato nei confronti del Ministero della Salute qualora ricorrano i presupposti per la relativa responsabilità.
Molti dei casi giudiziari di risarcimento dei danni da emotrasfusione menzionati dalle cronache anche recenti, tuttavia, fanno riferimento a fatti originari (interventi chirurgici e trasfusioni) che hanno avuto luogo anche decenni fa; sorge dunque spontaneo il quesito su come funzioni il meccanismo della prescrizione per queste azioni.
Sul punto, vi segnalo in particolare due ordinanze della Suprema Corte (la n. 26189 del 17 novembre 2020 e la n. 3129 del 10 febbraio 2020) che sul tema si esprimono in termini sovrapponibili.
La natura dell’azione da risarcimento dei danni da emotrasfusione
Entrambe le pronunce confermano che la responsabilità del Ministero della Salute per i danni da trasfusione di sangue infetto ha natura extracontrattuale, ex art. 2043 c.c.: si tratta di una responsabilità per danno ingiusto causato da omessa vigilanza.
Conseguentemente, il diritto al risarcimento è normalmente soggetto alla prescrizione quinquennale ex art. 2947, comma 1, cod. civ..
Tale termine è tuttavia destinato a diversificarsi in caso di decesso del danneggiato. Infatti, qualora il fatto sia considerato dalla legge come reato e per il reato sia stabilita una prescrizione più lunga di quella ordinaria, quest’ultima si applica anche all’azione civile, ai sensi dell’art. 2947, co. 3, c.c..
In tal caso:
- la prescrizione rimane di cinque anni con riferimento al danno subito, in vita, dal paziente – e poi fatto valere dagli eredi iure hereditatis – trattandosi di un danno da lesione colposa, reato soggetto a prescrizione quinquennale;
- la prescrizione sale invece a dieci anni in relazione al danno subito dai congiunti della vittima iure proprio, e cioè in relazione al danno per la perdita del congiunto posto che, da tale punto di vista, il decesso del congiunto emotrasfuso integra omicidio colposo, reato soggetto a prescrizione decennale.
Ma da quando iniziano a decorrere i termini di prescrizione?
Sul tema della decorrenza del termine di prescrizione del diritto al risarcimento del danno, Cass. Civ., Sez. III, n. 3129 del 10 febbraio 2020 ha ribadito il principio secondo cui
“la presentazione della domanda di indennizzo, di cui alla L. n. 210 del 1992, attesta l’esistenza, in capo al malato e ai familiari, della consapevolezza che queste siano da collegare causalmente con le trasfusioni e, pertanto, segna il limite ultimo di decorrenza del termine di prescrizione del diritto al risarcimento del danno, a norma degli artt. 2935 e 2947, comma 1, cod. civ.”.
La prescrizione dell’azione di risarcimento dei danni nei confronti del Ministero della Salute per omessa vigilanza sulla “tracciabilità” del sangue infatti non decorre dal giorno della eseguita trasfusione, né da quello in cui si sono rilevati i primi sintomi della malattia, bensì dal giorno in cui il danneggiato abbia avuto consapevolezza della oggettiva riconducibilità del suo stato morboso alla trasfusione subita.
Secondo l’ordinanza n. 3129, la data di presentazione della domanda amministrativa di erogazione dell’indennizzo ai sensi della suindicata legge è, in altri termini, il termine ultimo da cui può iniziare a decorrere il termine di prescrizione per far valere eventuali diritti risarcitori.
Ciò non esclude che il giudice possa individuare in un momento precedente l’avvenuta consapevolezza del suddetto collegamento, sulla base di un accertamento in fatto adeguatamente motivato.
Una volta offerta dalla vittima (o, per essa, dai suoi eredi, nel caso in cui la pretesa risarcitoria sia, appunto, azionata da costoro) la prova della data di presentazione della domanda di indennizzo previsto dalla L. n. 210 del 1992,
“spetta alla controparte dimostrare che già prima di quella data il danneggiato conosceva o poteva conoscere, con l’ordinaria diligenza, l’esistenza della malattia e la sua riconducibilità causale alla trasfusione anche per mezzo di presunzioni semplici”.
Il fatto noto dal quale risalire – per il tramite di presunzioni – a quello ignoto deve tuttavia essere una circostanza oggettiva e non una “mera ipotesi o congettura”, che si verifica quando la presunzione “si fonda su fatti incerti” e “viene dedotta da questi in via di semplice ipotesi”. Non basterà, in altri termini, allegare astrattamente che il paziente era senz’altro consapevole della malattia che l’affliggeva e che aveva iniziato a curarsi già prima presentazione della domanda d’indennizzo, ma bisognerà produrre dati certi, che permettano di desumere in modo obbiettivo la suddetta cognizione di causa.
Per ulteriori approfondimenti sul tema del danno da emotrasfusioni, vedi anche i miei precedenti post “Infezione da epatite C derivata da emotrasfusione e morte del paziente: non risponde il chirurgo, solo l’ematologo” e “Nessuna responsabilità per il contagio da virus causato da emotrasfusione se quest’ultima era indifferibile”.
Torniamo la prossima settimana con un nuovo, interessante argomento!
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