In tema di colpa professionale medica, qualora ricorra l’ipotesi di cooperazione multidisciplinare, ancorché non contestuale, e venga prescritto un esame diagnostico invasivo, il medico specialista chiamato ad effettuare tale esame non può esimersi dal valutare sia la presenza di fattori che possano condizionare negativamente l’esame stesso, sia la bontà della scelta diagnostica operata dal medico richiedente, soprattutto quando l’esame in questione sia stato prescritto da un medico non specialista
Oggi vi segnalo un’interessante sentenza della Cassazione Penale (n. 30051 del 29 luglio 2022) concernente i doveri del medico endoscopista e, più in generale, il tema della colpa professionale in caso di cooperazione multidisciplinare anche non contestuale.
Il caso
Ad una paziente anziana, sofferente di “dolore continuo emiaddome destro“, viene prescritto dal medico di medicina generale di sottoporsi a colonscopia con finalità diagnostica; la signora si reca dunque in una casa di cura privata ove viene sottoposta al suddetto esame. Poco dopo, la paziente comincia ad avvertire dei dolori addominali persistenti e, attraverso una radiografia all’addome, venne accertata una perforazione intestinale. Trasferita d’urgenza al pronto soccorso dell’ospedale più vicino, la paziente viene ricoverata nel reparto di chirurgia per un intervento chirurgico di urgenza, ma prima dell’intervento decede a causa di uno shock emodinamico e arresto cardiaco.
Lo specialista endoscopista viene indagato e poi condannato, sia in primo che in secondo grado, per omicidio colposo.
Le due sentenze, pronunciandosi in maniera omogenea, accertano e dichiarano l’imprudenza della condotta del medico per avere, in particolare:
- eseguito una colonscopia diagnostica non indicata secondo le linee guida, né proporzionata alla specificità del caso, tenuto conto della sintomatologia aspecifica lamentata dalla donna (una persistente emiaddominalgia destra), della sua età avanzata (90 anni), delle comorbilità sofferte dalla stessa (cardiomiopatia, osteoporosi, diatesi autoimmune, epatopatia) e dell’assenza di significative alterazioni cliniche ad indicazione della possibile presenza di un tumore (quali calo ponderale, anemia ferropriva, modificazioni dell’alvo, sanguinamenti gastroenterici, ecc.)
- omesso un preliminare approfondimento diagnostico mediante metodiche meno invasive, più proporzionate e prive di rischi (ricerca del sangue occulto nelle feci, ecografia, tomografia computerizzata, risonanza magnetica, colontomografia)
- deciso di eseguire comunque l’indagine endoscopica nonostante la rilevazione di un’inadeguata preparazione intestinale
- lacerato la parete colica – in una sede priva di alterazioni anatomo-patologiche, di condizioni di fragilità ovvero di aree di minor resistenza parietale – per un’errata manovra dell’endoscopio.
Vediamo qual è l’esito del ricorso in Cassazione.
L’endoscopista non è un mero esecutore
Uno dei profili di colpa addebitati al medico da entrambe le sentenze di merito è quello di non avere valutato che, rispetto alle ragioni della prescrizione dell’esame (un dolore addominale cronico), le linee guida in materia ritengono la colonscopia non indicata; ciò perché la colonscopia è un esame invasivo che presenta un rischio di perforazione della parete intestinale e tale rischio aumenta in caso di sesso femminile, età avanzata e comorbilità.
Lo specialista, perciò, prima di eseguire tale indagine deve procedere sia all’inquadramento anamnestico e clinico per la corretta esecuzione della indagine, sia alla valutazione dell’indicazione dell’esame prescritto dal medico di medicina generale o da altro specialista rispetto alle patologie sospettate ed alla sintomatologia lamentata.
Ciò perché l’endoscopista non è un mero esecutore di esami richiesti da altri, ma mantiene un’autonomia decisionale e può scegliere anche altri esami meno invasivi.
Secondo la difesa del professionista, invece, la valutazione circa l’indicazione o meno della procedura diagnostica spetta al medico di medicina generale (o al diverso specialista) che prescrive quella procedura e che ha il quadro completo delle condizioni di salute della paziente; posto che l’endoscopista vede il paziente per la prima volta in sede d’indagine, a fronte di una valutazione già operata da un collega, non è compito dell’endoscopista stesso di valutare l’adeguatezza e il rapporto tra i rischi che l’esame comporta per quella tipologia di paziente rispetto alla sintomatologia lamentata, né eventuali diverse opzioni diagnostiche; e ciò a meno che lo specialista verifichi che vi siano terapie farmacologiche in atto o anomalie nei parametri vitali che sconsiglino di praticare la colonscopia.
La responsabilità in caso di cooperazione multidisciplinare
Secondo la Suprema Corte, la materia è delicata e involge il delicato rapporto tra medici specialisti che effettuano esami diagnostici invasivi, con un ineliminabile quoziente di pericolo per il soggetto che vi si sottopone (è il caso, ad esempio, della colonscopia, come della gastroscopia, delle procedure diagnostiche con mezzo di contrasto o della coronarografia).
La regola, affermata da numerosi precedenti giurisprudenziali, è la seguente:
“In tema di colpa professionale, qualora ricorra l’ipotesi di cooperazione multidisciplinare, ancorché non svolta contestualmente, ogni sanitario – compreso il personale paramedico – è tenuto, oltre che al rispetto dei canoni di diligenza e prudenza connessi alle specifiche mansioni svolte, all’osservanza degli obblighi derivanti dalla convergenza di tutte le attività verso il fine comune ed unico, senza che possa invocarsi il principio di affidamento da parte dell’agente che non abbia osservato una regola precauzionale su cui si innesti l’altrui condotta colposa, poiché la sua responsabilità persiste in base al principio di equivalenza delle cause, salva l’affermazione dell’efficacia esclusiva della causa sopravvenuta, che presenti il carattere di eccezionalità ed imprevedibilità…
Ne consegue che ogni sanitario non può esimersi dal conoscere e valutare l’attività precedente o contestuale svolta da altro collega, sia pure specialista in altra disciplina, e dal controllarne la correttezza, se del caso ponendo rimedio o facendo in modo che si ponga opportunamente rimedio ad errori altrui che siano evidenti e non settoriali e, come tali, rilevabili ed emendabili con l’ausilio delle comuni conoscenze scientifiche del professionista medio”.
È ben vero che i precedenti giurisprudenziali in materia si riferiscono nella quasi totalità ai rapporti tra i sanitari partecipanti ad un intervento operatorio o ai medici che si avvicendano nelle cure di un paziente ricoverato in ospedale ma, secondo la Corte, i principi affermati possono valere anche in casi come quello in esame.
In quest’ottica, la Cassazione ha da tempo chiarito che
“L’obbligo di diligenza che grava su ciascun sanitario, infatti, concerne non solo le specifiche mansioni a lui affidate, ma anche il controllo sull’operato e sugli errori altrui che siano evidenti e non settoriali, in quanto tali rilevabili con l’ausilio delle comuni conoscenze del professionista medio”
e questo anche quando il controllo involge il rapporto tra specialista e medico di medicina generale. In relazione all’ipotesi inversa, vedi il mio precedente post “Il medico di famiglia? Non è corresponsabile delle scelte dei colleghi specialisti ospedalieri”.
Sul punto, conclude la Corte:
“Occorre, dunque affermare il principio per cui, in tema di colpa professionale medica, qualora ricorra l’ipotesi di cooperazione multidisciplinare, ancorché non svolta contestualmente, allorquando venga prescritto un esame diagnostico invasivo…,
il medico specialista chiamato ad effettuare l’esame non può esimersi dal valutare, oltre che la presenza di fattori che possano condizionare negativamente l’esame stesso (assunzione di farmaci, parametri vitali, esito esami ematochimici), anche la bontà della scelta diagnostica operata dal medico richiedente in relazione alla sintomatologia lamentata dal paziente ed all’esistenza o meno di precedenti indagini diagnostiche che avvalorino il sospetto della malattia ipotizzata… Rispetto a tale valutazione… lo specialista non può lavarsene le mani, soprattutto quando la prescrizione dell’esame proviene da un collega che specialista non è.”
Anche la necessità di raccogliere il consenso informato del paziente conferma i doveri dello specialista
Secondo la Corte, un’accurata valutazione clinica del paziente da parte dello specialista chiamato ad eseguire un esame diagnostico è richiesta anche al fine di procedere all’adeguata informazione del paziente stesso, necessaria e prodromica al fine della raccolta di una valida disposizione di volontà dello stesso in merito all’esecuzione dell’esame prospettatogli (cioè del suo consenso informato).
La stessa struttura e contenuto dell’iter informativo richiedono usualmente una diagnosi clinica da parte dello specialista, a cui segue l’indicazione della procedura diagnostica proposta, con riferimento alla quale devono essere indicati al paziente i benefici attesi dalla procedura, possibili inconvenienti e complicanze, eventuale anestesia praticata, possibili alternative e conseguenze della mancata esecuzione (cfr. Art. 1 Legge 22.12.2017, n. 219).
Sul punto, la Cassazione chiarisce che
“nel momento in cui si dà conto che devono essere indicati alla paziente i benefici attesi dalla procedura diagnostica invasiva che si va a porre in essere, è palese che lo specialista è chiamato a fare propria, convalidandola all’esito di una propria valutazione autonoma, l’eventuale valutazione del medico proponente.”
Per concludere
Per i motivi che precedono, la Cassazione ha rigettato il ricorso e condannato il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Ci aggiorniamo presto con un nuovo, interessante argomento!
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