Il medico di famiglia? Non è corresponsabile delle scelte dei colleghi specialisti ospedalieri

Il medico di famiglia non ha, di norma, né le competenze specialistiche per sindacare l’operato terapeutico dei medici specialisti di un determinato reparto ospedaliero, né il potere di condizionare le condotte di essi sanitari, né alcuna compartecipazione alle loro scelte, restando, sostanzialmente al pari di un congiunto del ricoverato, un mero visitatore. Non è dunque chiamato a condividere le eventuali responsabilità di questi ultimi.

Oggi vi segnalo una recentissima sentenza della Cassazione (ivile, Sez. III, n. 4587, 11 febbraio 2022) sul tema delle rispettive responsabilità dei diversi professionisti medici.

 

Il caso

A seguito di un incidente automobilistico una signora viene ricoverata in ospedale e, grazie agli approfondimenti eseguiti in tale occasione, viene scoperto che è affetta da fibrosi polmonare.

La – non meglio identificata – terapia iniziale con cui viene trattata la paziente viene in seguito sostituita, presso il reparto di pneumologia di altro ospedale, con una terapia antinfiammatoria ed immunosoppressiva ma, a seguito di insorgenza di grave infezione – ritenuta effetto collaterale inevitabile della terapia – la paziente decede.

Il coniuge della paziente conviene dunque in giudizio sia il medico di medicina generale della stessa, sia gli specialisti ospedalieri e l’ospedale che l’avevano seguita in ultima battuta, al fine di sentirli dichiarare responsabili per la tardiva diagnosi della fibrosi polmonare di cui la paziente era affetta, per l’inadeguato trattamento di detta patologia, per la mancata previa acquisizione del consenso informato e – in sostanza – per il decesso della donna.

Il Tribunale accoglie parzialmente le domande del marito, ritenendo fondata solo la domanda concernente la violazione del diritto di autodeterminazione della paziente, per non essere stata quest’ultima informata, durante il ricovero ospedaliero, “sulla diagnosi, sulla prognosi di sopravvivenza e sugli effetti collaterali della terapia immunosoppressiva cui era sottoposta”, con conseguente condanna dell’ospedale e del primario del reparto di pneumologia al risarcimento del danno morale equitativamente quantificato in Euro 5.000,00. La Corte d’Appello conferma la sentenza.

Propone dunque ricorso in Cassazione contro la sentenza il marito della paziente: vediamo qual è l’esito dell’ultimo grado del giudizio.

 

I motivi di ricorso del marito

Il ricorrente critica, in particolare, la mancata condanna del medico di famiglia della paziente per l’omessa tempestiva diagnosi della grave patologia di cui era affetta la moglie, nonché per aver avvallato le cure proposte a livello ospedaliero, sostanzialmente concausando la morte della paziente per infezione.

La Cassazione conferma però la sentenza del giudice di appello, basata sulle seguenti considerazioni:

  1. la tesi secondo cui la morte della donna (affetta da una assai grave e veloce malattia polmonare con prognosi infausta) sarebbe stata causata da colpe mediche era integralmente destituita di fondamento
  2. la terapia antiinfiammatoria ed immunosoppressiva praticatale era quella prevista dallo “stato dell’arte” dell’epoca per la fibrosi polmonare
  3. la circostanza che tale terapia immunosoppressiva potesse aver determinato o favorito l’infezione concausativa della morte rientrava nell’effetto collaterale inevitabile di ogni terapia immunosoppressiva, da utilizzarsi con cautela e solo quando strettamente necessario, cautela e necessarietà ravvisabili nel caso concreto.

 

La posizione del medico di famiglia

Con specifico riferimento alla posizione del medico di famiglia, la Corte d’Appello ha ritenuto “palesemente infondata … la tesi difensiva che vorrebbe il dott. (omissis) corresponsabile dell’asserita colpa nosocomiale per aver avallato le cure ospedaliere”, sulla base rilievo per cui

Il medico di famiglia, <<rispetto ai medici specialisti di un determinato reparto ospedaliero, non ha di norma né le competenze specialistiche, per sindacare l’operato terapeutico dei sanitari ospedalieri, né il potere di condizionare le condotte di essi sanitari, né alcuna compartecipazione alle scelte di essi, restando, sostanzialmente al pari di un congiunto del ricoverato, un mero visitatore>>”.

Nel caso in commento, è stato anche accertato mediante la testimonianza della madre della paziente che l’ultimo accesso della figlia allo studio del medico di famiglia si doveva collocare all’incirca un anno prima della morte: secondo la Cassazione, non è dato dunque a comprendersi “come il medico di base potesse diagnosticare preventivamente la fibrosi polmonare di cui cominciarono a riscontrarsi i segni solo a seguito di un ricovero”, avvenuto mesi dopo.

Pertanto la Corte di Cassazione, pur senza sminuire le competenze specifiche del medico di famiglia, conferma la sua sostanziale estraneità alle decisioni cliniche dei colleghi specialisti ospedalieri ed alla valutazione della loro adeguatezza rispetto al caso concreto, e così anche alle eventuali responsabilità conseguenti alle stesse.

 

Mancanti anche le condizioni per un diverso riconoscimento del danno da violazione del diritto all’autodeterminazione

Sotto il profilo dell’allegata violazione del diritto all’autodeterminazione della paziente, il marito solleva le seguenti doglianze:

  • i medici si erano – del tutto inopinatamente – discostati da una terapia che stava funzionando, contro il parere dei precedenti sanitari che avevano diagnosticato la malattia e iniziato una terapia che si stava rivelando corretta
  • era lecito presumere che, qualora la paziente fosse stata informata delle intenzioni dei medici di cambiare terapia e, soprattutto, dei rischi che l’attuazione di quelle intenzioni avrebbe comportato, la stessa si sarebbe opposta, domandando di proseguire le terapie così come praticate, con ottimi risultati, dai sanitari che l’avevano avuta precedentemente in cura.

Secondo la Cassazione le contestazioni del marito non sono accoglibili. La decisione della Corte d’Appello si è infatti basata sulle seguenti – condivisibili – valutazioni:

  1. all’epoca dei fatti, non erano disponibili altre concrete ed efficaci soluzioni terapeutiche per il contrasto della fibrosi polmonare
  2. gli effetti esiziali della malattia non sarebbero stati modificati dal rifiuto del trattamento somministrato presso il secondo ospedale da parte della paziente.
  3. non era stata allegata e provata una diversa consistenza del danno da violazione del consenso informato

Va ricordato che costituisce presupposto fondamentale per il riconoscimento di un danno da violazione del diritto all’autodeterminazione del paziente, la prova – da fornire anche tramite presunzioni – che il paziente, se regolarmente informato sui rischi del trattamento o della terapia proposta, avrebbe scelto di non sottoporsi alla stessa, prova che nel caso in commento non era stata fornita -anche avuto riguardo alla gravità della malattia – appariva verosimile.

 

Le conclusioni nel caso concreto

Sulla base di quanto precede il ricorso del coniuge della paziente è stato rigettato e lo stesso è stato condannato al versamento di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso.

 

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LEGGI LA SENTENZA

Cassazione Civile, Sez. III, n. 4587, 11 febbraio 2022